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Ho sempre pensato che i grandi dischi siano quelli che riescono ad amalgamare pezzi con mood e strutture varie, rendendoli non solo adatti gli uni agli altri, ma repentinamente indiscibili. L’eterogeneità non è mai stato un problema di Nicolas Jaar, fare grandi dischi nemmeno.
Savior, come down è l’implorazione con cui il disco si apre, e non è l’unico passaggio che definisce la serietà del tono del disco. Qualcuno parlerebbe di spiritualità o addirittura di biblicità, mentre tirare in ballo direttamente l’Apocalisse, forse, significherebbe farsi condizionare troppo dal contesto che stiamo vivendo. Tutto questo senza voler ignorare che la title-track funzionerebbe mirabilmente come requiem di fine mondo.
Ho sempre pensato che Nicolas Jaar possa essere considerato l’adeguato discendente di quella dinastia di maestri nell’utilizzo di silenzi e pause, di cui il compianto Mark Hollis era il rappresentante sommo. Diventa difficile scorgere, in mezzo a tutti i granuli sonori, quello che una volta veniva considerato un enfant prodige della deep house. Meno complesso è invece seguire il filo che congiunge anche il Nicolas Jaar contemporaneo a quello di “Space is Only Noise”. La sempre più evidente politicizzazione dei lavori del produttore cileno fa invece venir voglia di citare Stephen King, perché è evidente che il figlio di Alfredo non ha dimenticato il volto di suo padre.
Il baritono di Jaar sembra arrivare direttamente dalle profondità di non si sa che dirupo, arrampicandosi stentamente su una parete di rumori e glitch. La cima sembra non arrivare mai, così come non c’è sostanzialmente mai traccia di un vero e proprio drop, che distenda l’inquietudine che si accumula in quasi un’ora di musica.
Il momento di maggiore potenza è probabilmente “Mud”. Un pezzo raffinato e furioso, che avanza e squarcia la coltre onirica dove l’ascoltatore era ormai disperso. La chiusura è invece affidata a “Faith Made of Silk”, dove Jaar canta look around not ahed, un verso appropriatissimo, data la condizione di stallo in cui tutto il mondo versa. Non solo è un brano che starebbe bene in un disco dei Radiohead, ma è uno di quelli su cui Thom Yorke si dimenerebbe tarantolato.
Forse risorgere dalle ceneri non è possibile, ma alla fine di un disco spettrale, nel bel mezzo di periodo lugubre, si può tornare a ballare.
85/100
(Carmine D’Amico)