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Mentre attendiamo la pubblicazione del suo trentanovesimo album in studio, “Rough and Rowdy Ways”, in uscita a giugno, il primo di canzoni originali in otto anni, e a poca distanza dal suo 79° compleanno (24 maggio), entriamo nei giganteschi archivi di Bob Dylan e proviamo a far luce su alcune “gemme” meno note del suo repertorio. Selezionarne solo sette è un’impresa che, però, ci piace eccome intraprendere.
1) “Caribbean Wind” (1980-81)
Nell’intervista a Bob Dylan inclusa nel cofanetto retrospettivo Biograph (1985), dove il brano compare per la prima volta, Bob Dylan ci informa di aver scritto “Caribbean Wind” mentre si trovava a St. Vincent, nei Caraibi. L’ha composta a seguito di un sogno che lo aveva reso inquieto. Siamo nel suo cosiddetto periodo di Born Again Christian, durato circa dal 1978 al 1981. Questo brano lo perseguiterà per mesi e subirà numerose modifiche nella musica e, soprattutto, nel testo. Dylan non ne resta soddisfatto e lo scarta. Di esso circolano quattro versioni. Due sono reperibili sul Bootleg Series 13, una è ascoltabile su bootleg non ufficiali e anche su YouTube, un’altra è pubblicata su Biograph. “Caribbean Wind” è una ballata romantica e onirica, piena di riferimenti biblici, che sin dal primo istante ti si stampa nell’anima. Il narratore dialoga con una ragazza «fair brown» che nelle prime versioni è haitiana, nell’ultima “la Rosa di Sharon”. Dylan sta dando inizio a quel processo di sincretismo di cristianesimo ed ebraismo che porterà avanti negli anni successivi. Come ha notato Alessandro Carrera, traduttore e acclamato studioso di Dylan, in “Caribbean Wind” i riferimenti religiosi si uniscono a riti vudù e alla reticenza che Dylan mostra nel raccontare l’amore tra un (ebreo) bianco e una donna creola o afroamericana. Si tratta di un tabù tutto statunitense che Dylan ha affrontato in numerose canzoni. Ed è un tema che lo riguarda da vicino: Dylan ha avuto molte compagne afroamericane e nel 1986 ne avrebbe sposata una.
2) “Blind Willie McTell” (1983)
Indiscutibile capolavoro registrato nel 1983 con Bob Dylan al piano e Mark Knopfler alla chitarra, “Blind Willie McTell” venne scartata dall’LP Infidels e fu pubblicata solo nel 1991, sul primo, enorme cofanetto (che conteneva insieme i primi tre volumi) della Bootleg Series. Prendendo in prestito la melodia dal traditional “St. James Infirmary” Dylan raggiunge incredibili vette poetiche. Ho visto la freccia sulla porta, canta, che dice che questa terra è condannata da New Orleans a Gerusalemme. Dylan ci ripete che nessuno canta il blues come Blind Willie McTell, straordinario musicista nato in Georgia a fine Ottocento. La voce di Dylan spalanca universi, sfonda porte e portoni. Il brano, che contiene una delle migliori performance vocali di Dylan, ci conduce in un Sud degli States inquietante e violento. Il narratore vede al fiume un uomo ben vestito che ha del whisky di contrabbando, vede zingare color carbone, sente lo schioccare della frusta, percepisce gli spettri delle navi di schiavi. Dio è in Paradiso, conclude, e noi tutti vogliamo ciò che è suo, ma potere, avidità e seme corruttibile sembrano essere tutto ciò che vi è qui. Difficilmente si può scrivere meglio.
3) “Brownsville Girl” (1986)
Composta da Bob Dylan tra ‘84 e ‘86 con il contributo del regista teatrale, attore e amico Sam Shepard, il brano è un epico viaggio di 11 minuti che viene registrato una prima volta col titolo di “New Danville Girl”, che richiama un pezzo di Woody Guthrie, e una seconda volta col titolo di “Brownsville Girl”. Il riferimento ora è a Sleepy John Estes, bluesman del Tennessee che canta dell’amore per una ragazza di Brownsville coi capelli ricci. È questa la versione pubblicata ufficialmente su Knocked Out Loaded (1986). Dylan è in coda per un film western, che ha già visto, con Gregory Peck. Inizia a raccontarci la trama ma improvvisamente si sbaglia, confondendola con quella di un altro western, sempre con Peck. Continua a fantasticare. All’improvviso si ricorda di quando era in viaggio con una donna con la quale ebbe una relazione, probabilmente afroamericana, come quella cantata da Sleepy John Estes. Ma, come accade anche in “Visions of Johanna”, si tratta di una donna-specchio: Dylan precisa subito che ama un’altra. D’improvviso siamo catapultati nel film. Dylan è Peck, è accerchiato, c’è una sparatoria, una donna testimonia il falso per tirarlo fuori dal carcere. Dylan non canta: recita. I cori gospel rendono l’atmosfera surreale. Al termine il narratore è più confuso di prima, sia sul film sia sulla propria vita.
4) “Red River Shore” (1997)
Registrata durante le sessioni per Time Out of Mind (1997) e alla fine scartata, “Red River Shore” viene pubblicata nel 2008 sul Bootleg Series 8, dove compare in due versioni. Brano romantico, con una melodia che sembra vecchia di secoli, è un gioiello folk intessuto di riferimenti biblici. Racconta dell’amore per una donna che forse è esistita, forse è stata solo immaginata. Una dolce chitarra acustica ci culla dall’inizio alla fine. Il titolo è una citazione diretta a un brano omonimo del Kingston Trio. Alcuni versi del brano del trio sono citati direttamente da Dylan sia qui sia in un altro brano registrato quell’anno, “Not Dark Yet”, inserito in Time Out Mind. Sono uno straniero in una terra straniera, canta. Il riferimento è a Esodo, e per la precisione a Mosè. In un’intervista del 1983 Dylan aveva dichiarato che le sue radici (di ebreo) “arrivano fino a Mosè”, colui “che uccise l’egiziano e sposò un’etiope [Zepporah]”. La storia, in realtà, non è proprio così, e gli studiosi non sono più certi che la donna fosse etiope, ma è chiaro che Dylan voglia anche qui unire Bibbia e mondo del folk. Chi è, per esempio, l’uomo citato nell’ultima strofa, “vissuto molti anni fa, capace di resuscitare i morti”? Gesù? E la ragazza del Red River è forse Zepporah?
5) “I’m Not There” (1967)
Parte dei cruciali Basement Tapes, sessioni tenute da Bob Dylan e The Band nel celebre scantinato Big Pink nel 1967, “I’m Not There”, circolata per decenni su bootleg, ha dato anche il titolo all’ottimo film del 2007 di Todd Haynes ispirato alla vita (anzi, alle vite) di Bob Dylan. Il brano, del quale va menzionata la convincente cover eseguita dai Sonic Youth, non venne mai terminato. L’unico take registrato è reperibile nel Bootleg Series 11 (2014), pietra miliare che contiene in sei dischi tutti i “Nastri della Cantina” esistenti. In “I’m Not There” Dylan sta ancora lavorando al testo, al momento della registrazione formato unicamente da tanti frammenti. A frasi sconnesse si alternano passi profondi e poetici, ma la bellezza di quest’opera sta proprio nella sua incompiutezza. Siamo dentro al laboratorio di un genio, stiamo assistendo alla genesi di un potenziale capolavoro abbandonato sul nascere. E di un abbandono si parla nel testo, un lamento tremante e sincero, una donna e un uomo distrutti, perduti. «I wish I was there to help her, but I’m not there, I’m gone». Il non-esserci è stato da sempre un modus vivendi (e operandi) di Dylan, ma non è mai stato così disperato come in questo momento.
6) “Abandoned Love” (1975)
“Abandoned Love” viene scritta a New York nel ‘75, subito dopo il meraviglioso Blood on the Tracks, mentre Dylan sta lavorando a Desire. Il suo matrimonio è in frantumi e in molti brani di questo periodo la tristezza si mescola spesso alla rabbia. L’autore è nudo di fronte ai propri errori e non ha pietà neanche per quelli altrui. Di “Abandoned Love” viene registrata una versione proprio per Desire, poi scartata e pubblicata su Biograph dieci anni dopo. Al violino c’è la talentuosa Scarlet Rivera, che sarà anche in entrambe le tournée Rolling Thunder Revue. Questa versione, però, non raggiunge le vette che aveva toccato l’esecuzione inaspettata di qualche settimana prima. Dylan è all’Other End, locale del Greenwich Village tuttora esistente. In quell’estate vi si esibiva spesso Patti Smith, ma quella sera a invitarlo fu Ramblin’ Jack Elliott. Dylan va sul palco e decide di eseguire proprio “Abandoned Love”. Pur freddo, distaccato, si apre a chi gli sta davanti. È in trance e pronuncia ogni sillaba con chiarezza e veemenza. Ti prende al collo. Se Blood on the Tracks era stato una cinica dissertazione su un matrimonio fallito, “Abandoned Love” ne è la perfetta appendice.
7) “Born in Time” (1989-90)
Anche “Born in Time” è un pezzo che è costato a Bob Dylan fatica. Composto in varie stesure tra ‘88 e ‘89 e registrato, con la supervisione di Daniel Lanois, durante le sessioni per lo splendido Oh Mercy (1989), venne scartato, modificato e registrato di nuovo. La versione inserita in Under the Red Sky (1990), pur buona, non raggiunge i picchi delle due precedenti, contenute sul Bootleg Series 8 (2008). È di nuovo di un amore finito o mai nato che canta Dylan con voce roca e sommessa. Nella versione di Under the Red Sky questa donna, come sua madre, si è sposata giovane. Nelle versioni precedenti ritorna sui suoi passi proprio quando il narratore l’aveva superata, poi se ne va per sempre. Dylan abbraccia i ricordi senza malinconia né rancore. Quando, diversi anni fa, andai a sentire Robyn Hitchcock che proponeva reinterpretazioni di brani di Dylan, questa canzone venne eseguita nella forma che ha sui Bootleg Series, con quegli stessi ipnotici arpeggi e quel testo. Nel presentare il brano, anche Hitchcock notò quanto migliori fossero le versioni scartate. E se l’ha detto Hitchcock, sicuramente più affidabile del sottoscritto, non può che essere vero.
Samuele Conficoni