Share This Article
In “Rough and Rowdy Ways”, il suo trentanovesimo album, il primo in otto anni contenente brani autografi, Bob Dylan riesce a coniugare le tendenze del suo ultimo, straordinario periodo discografico, quello iniziato con “Time Out of Mind” e interrottosi provvisoriamente con “Tempest”, con le sonorità dei tre lavori usciti tra 2015 e 2017 contenenti brani pescati dal Great American Songbook. “I paint landscapes and I paint nudes / I contain multitudes”, canta Dylan nel brano che apre il disco. Dice di essere un pittore, un poeta, un uomo pieno di contraddizioni. In “Rough and Rowdy Ways” mostra tutti questi aspetti. In un momento particolarmente drammatico per gli Stati Uniti dilaniati dal razzismo e dalla pandemia la voce di Dylan, che è un poeta e un profeta per più generazioni, è rilevante e potente. È emozionante sentirlo cantare, in “Murder Most Foul”, prossimo ai sessant’anni di carriera, “Freedom, oh freedom, freedom over me / I hate to tell you, mister, but only dead men are free”, versi nei quali risuona uno spiritual nato dagli schiavi.
Proprio “Murder Most Foul” è stata l’inizio di tutto. È fine marzo quando all’improvviso viene pubblicata. È un’opera cupa e maestosa di diciassette minuti costruita intorno all’assassinio di JFK. “Twas a dark day in Dallas, November ‘63”, canta Dylan nell’aprire il pezzo, descrivendo la scena del crimine con precisione asciutta e drammatica. Ma non è tanto il tremendo assassinio che a Dylan interessa, quanto le conseguenze sociali, politiche e artistiche che seguirono al dramma. Il brano diventa una macchina del tempo che, partendo dagli States dei Sixties, ci porta avanti e indietro negli anni come un’altalena. Con un titolo che rimanda all’Amleto di Shakespeare, questo diamante fu l’inizio di tutto e ora è il pezzo che chiude l’album. Per la sua maestosità viene addirittura inserito in un disco a parte. Si tratta anche della prima canzone scritta e interpretata da Dylan a raggiungere la prima posizione in una classifica Billboard. È l’inizio e la fine, dicevamo, e si conclude con una lunghissima lista di brani che il narratore chiede di suonare al celebre DJ Wolfman Jack. L’ultima richiesta, dopo un elenco infinito di canzoni, film e personaggi, è proprio “Murder Most Foul”.
In aprile è poi arrivata “I Contain Multitudes”. In essa Dylan cita Walt Whitman, si paragona a Rolling Stones, Indiana Jones e Anna Frank e pare aprirsi a chi ascolta come quasi mai aveva fatto. Non sappiamo se il narratore coincida con l’autore, ma possiamo certamente immaginarci Bob mentre dipinge. (Dylan è anche pittore e scultore. Mostre di sue opere sono state allestite nel corso degli anni in varie parti del mondo, e alla Halcyon Gallery di Londra ci sono molti suoi lavori.) Infine, a maggio, con la pubblicazione di “False Prophet”, è arrivato l’annuncio che il trentanovesimo album di Bob Dylan, “Rough and Rowdy Ways”, sarebbe uscito a giugno. In questi due brani che aprono l’album, tra loro diversissimi, Dylan gioca con le parole e disegna geometrie musicali e vocali. Molti anni fa Cristopher Ricks, docente di letteratura inglese a Oxford, lo ha definito uno dei più grandi scrittori in lingua inglese di sempre. A quanto pare l’Accademia di Svezia la pensa come lui. In “False Prophet”, blues forsennato e aggressivo che riprende la melodia di un pezzo del 1954 di Billy “The Kid” Emerson, “If Lovin’ Is Believing”, le parole diventano spine che si conficcano negli occhi di chi ascolta, tra accuse, minacce e ingiurie.
Il titolo “Rough and Rowdy Ways” rimanda a una canzone del 1929 di Jimmie Rodgers e ripropone atmosfere molto simili a quelle che Dylan crea in concerto da anni. Accanto a lui ci sono i musicisti che lo accompagnano attualmente dal vivo, tra i quali il chitarrista Bob Britt e il batterista Matt Chamberlain, elementi che si sono aggiunti al suo gruppo solo lo scorso autunno. Questo certifica il fatto che l’album sia stato registrato pochi mesi fa, probabilmente alla fine dell’ultimo tour. Tra i musicisti addizionali sono listati Fiona Apple, Blake Mills e Alan Pasqua. I testi sono straordinari e riescono a combinare, con raffinatezza e ricercatezza, l’astratto e il concreto. “The size of your cock will get you nowhere”, Dylan canta in “Black Rider”, citando la sesta satira di Giovenale. E in “My Own Version of You” si domanda: “Can you tell me what it means: To be or not to be?”. Il gioco letterario e il citazionismo si inseguono uno dopo l’altro in versi acuti e brillanti. Ci sono echi di Shakespeare, Cesare, Omero. Ci sono Whitman, Kerouac e Ginsberg. C’è, ovviamente, la Bibbia.
Per creare il suono di questo album Dylan è partito dall’esperienza che ha condotto nel rivisitare il Great American Songbook ma non dimentica le cavalcate forsennate degli ottimi “Tempest” e “Together Through Life”. È proprio grazie a questo approccio misurato e poetico, che all’occorrenza sa diventare polveroso e graffiante, che “Rough and Rowdy Ways” risulta il miglior album di Bob Dylan dai tempi di “Modern Times”. È un approccio che pervade tutti gli arrangiamenti e anche il suo modo di comporre. Siamo di fronte a Bob Dylan: ogni dylanologo sa che dovrà studiare il disco per anni prima di cogliere tutti i riferimenti e le allusioni che ogni brano presenta. Ma questo, come ogni suo grande disco, ha la capacità di colpire già dal primo ascolto. Dylan si sta divertendo e sembra essere in trance. In una recente intervista per il New York Times sostiene che i nuovi brani siano nati proprio in uno stato simile.
Anche i blues risentono dell’influenza dei suoi dischi recenti. “Goodbye Jimmy Reed” tratta di religione e i pochi soffi di armonica riportano il Dylan contemporaneo a un’atmosfera Mid-Sixties. Nella intimista “Crossing the Rubicon” Dylan declama con freschezza ogni verso e cammina sicuro di sé tra i rischi e i nemici. L’attraversamento del fiume diventa qui una sorta di trasfigurazione del protagonista, per citare un termine che Dylan stesso aveva usato in un’intervista del 2012 per Rolling Stone. “I ain’t no false prophet / I just know what I know / I go where only the lonely can go”, canta Dylan in “False Prophet” senza alcuna pietà, in mezzo a una scarica di note elettriche. Il nemico giurato della spaventosa ed evocativa “Black Rider”, che è forse la morte, è una presenza ingombrante che la chitarra spagnola, incalzante, minaccia e allontana. Nel valzer multiforme e gotico che è “My Own Version of You”, una rivisitazione di Frankenstein, Dylan cerca i pezzi coi quali costruire l’amata perduta o forse mai esistita. Nel ricrearla non pone limiti alla sua fantasia e prende il Pacino di Scarface e il Brando del Padrino. Sembra parlare del procedimento che utilizza per comporre le proprie canzoni.
Dylan canta spesso di morte. Con la morte si confronta da ormai sessant’anni. Non si confronta tanto con la morte del singolo, come ha dichiarato nella già citata intervista per il New York Times, quanto con la morte come segno tangibile della fragilità della specie umana. “Penso alla scimmia nuda”, ha dichiarato. Al tempo stesso l’amore non è più un sentimento da affrontare con cinismo e distacco. “I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You”, che inizia con lo splendido distico “I’m sitting on my terrace, lost in the stars / Listening to the sounds of the sad guitars”, è una preghiera sincera e piena di devozione. Ma quando canta “Fly around my pretty little Miss / I don’t love nobody, give me a kiss”, in “Key West (Philosopher Pirate)”, con quel “nobody” pronunciato come solo Dylan potrebbe, il protagonista è talmente sprezzante da lasciare spiazzati. La narrazione si fa spesso epica. “Mother of Muses” inizia con la classica invocazione alle muse ma si trasforma in qualcosa di più simile al Cantico delle Creature, un tributo a ciò che di positivo è esistito ed esiste, da Elvis a Martin Luther King. Qui, come nella gemma che è “Key West”, Dylan culla melodie brillanti e purissime e va in cerca d’ispirazione. “I’ve already outlived my life by far”, sussurra a un certo punto in “Mother of Muses”. Le moltitudini che è Bob Dylan compaiono ovunque nel disco. La lista di brani che richiede a Wolfman Jack in “Murder Most Foul” sembra ricondurci alla sua esperienza radiofonica dello scorso decennio e il compianto Little Richard, uno dei suoi grandi idoli, scomparso di recente e salutato da Dylan sui social, rivive in svariati episodi del disco.
In “Rough and Rowdy Ways” Dylan compie più viaggi, sia fisici che mentali. Va a Bally-na-Lee, corre in cerca dei pezzi che gli servono a costruire l’amata, affronta i nemici, celebra l’amore e non si atterrisce di fronte alla morte. In “Key West” è agli estremi confini della Florida. Key West, vicino al Golfo del Messico, è una terra incantata, il luogo che porta all’immortalità. Tutto sembra così fragile, e “Rough and Rowdy Ways” cerca di fissare in vitro questa fragilità. Pur parlando in codice, Dylan si racconta con una sincerità rara, come poche volte ha fatto nella sua vita. Quando in “Mother of Muses” sussurra “Forge my identity from the inside out” è il momento dell’agnizione, l’attimo in cui Dylan riconosce la sua stessa grandezza e noi riconosciamo lui. E intanto lui dipinge paesaggi, dipinge nudi, contiene moltitudini.
80/100
(Samuele Conficoni)