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Il peso di quel ginocchio piantato sul collo di George Floyd è diventato in pochi giorni l’immagine emblematica del peso di un’oppressione razziale mai del tutto relegata alla storia. 8 minuti e 46 secondi che rappresentano in maniera spietata ed eloquente quattro secoli di schiavitù, segregazione e diseguaglianze nella società americana che negli ultimi anni è tornata divisa e disgregata come mezzo secolo fa.
In molti, guardando il drammatico video degli ultimi minuti di vita di George Floyd, hanno ripensato al videoclip di “Close Your Eyes (And Count to Fuck)”, brano tratto da “Run The Jewels 2” impreziosito dal featuring di Zack De La Rocha dei Rage Against The Machine. Nel video, reso senza tempo dal b/w di Rojas, un poliziotto bianco e un nero disarmato ingaggiano un interminabile e immotivato corpo a corpo e per qualche istante il protagonista blocca il viso del giovane sul marciapiede con la stessa posa che ha reso tristemente celebre Derek Chauvin, l’ufficiale accusato insieme ad altri tre agenti del dipartimento di polizia di Minneapolis.
Il secondo episodio dell’esaltante avventura targata Run The Jewels dei due quarantaseienni, usciva nell’autunno del 2014, anno dell’esplosione planetaria del movimento Black Lives Matter, come reazione popolare alle uccisioni di Eric Garner a Staten Island e del diciottenne Michael Brown a Ferguson (l’indagine sul responsabile, Darren Wilson, fu archiviata proprio in quelle settimane). In tracce come “Early”, Killer Mike – che nella settimana d’uscita del nuovo disco si è fatto notare in tutto il mondo per un discorso duro e maturo a margine dei primi riot della sua Atlanta – immaginava la sua morte durante un fermo di polizia. Un leitmotiv che ritorna nella opening track di RTJ4, “Yankee And The Brave”, dove Mike parla del suicidio come unica certezza per non finire prima o poi assassinati dalla polizia.
Sono passati oltre sei anni e sembra non essere cambiato nulla, con le morti di George Floyd, Breonna Taylor, Tony McDade, David McAtee che insieme alle agghiaccianti cifre sulle percentuali di afro-americani uccisi dalla pandemia hanno azionato una bomba a orologeria che difficilmente sarà disinnescata in tempi brevi dall’amministrazione americana. Non c’è più Barack Obama, ora a gettare benzina sul fuoco c’è Donald Trump, uno spettro già presente in “Run The Jewels 3”, uscito alla vigilia di Natale a qualche giorno dall’avvicendamento ufficiale tra i due presidenti. Ma la rabbia del duo e di milioni di americani non si è mai placata. Nemmeno in “RTJ4”, incandescente racconto di quaranta minuti in undici atti dove la brutalità della polizia del potere, il razzismo, la corruzione e le proteste per una nuova autentica emancipazione, sono sempre centrali per il flow mitragliante dei due.
L’album, che segue di 4 anni il precedente “Run The Jewels 3”, è disponibile dal 3 giugno in free-download sul sito ufficiale, con offerta libera consigliata i cui proventi sono devoluti alla National Lawyers Guild Mass Defense Fund associazione che fornisce assistenza legale ad attivisti politici e manifestanti impegnati in battaglie sociali.
I primi estratti, la già citata opening track e soprattutto l’ipnotica “Ohh LA LA” con i guru Greg Nice e DJ Premier, lasciavano prefigurare un’intrigante svolta old school (basti il sample di “DWYCK” dei Gang Starr di Premier) e in parte il trittico iniziale oscilla su una saggia rivisitazione di quegli scenari, anche in “Out Of Sight” dove compare un altro guest di lusso come 2 Chainz tra i sample del classico “Misdemeanor” di Foster Sylvers. O nella vivida guerriglia metropolitana di “Goonies VS.Et”: “Now I understand that woke folk be playin’ / Ain’t no revolution is televised and digitized / You’ve been hypnotized and Twitter-ized by silly guys” sembrano ancora una volta parole scritte oggi, tra le proteste ai tempi del distanziamento sociale, eppure è stata scritta nell’autunno caldo del 2014. Implacabili corsi e ricorsi.
Negli allucinati fragori di “Holy Calamafuck” i due iniziano a scrollarsi di dosso quella nostalgia old school tra distorsioni, basse perforanti e destrutturati sample dancehall a partire dal riddim “All Dem A-Talk” che rievocano il Kanye West di Yeezus. Per poi portare come sempre il sound nella contemporaneità, con produzioni creative, straripanti, come solo loro. Tutte le tracce sono sempre prodotte da El-P, ma in questa compaiono tra i credits Boots e Dave Sitek, nelle altre Torbitt e Wilder Zoby Schwartz.
Basta ascoltare l’ubriacante sinfonia metropolitana di “Walking In The Snow” dove sbuca fuori la prima regina dell’hip hop, l’inossidabile Gangsta Boo della Three Six Mafia e lascia tutti ko. Forse persino loro stessi.
“And every day on evening news they feed you fear for free
And you so numb you watch the cops choke out a man like me
And ’til my voice goes from a shriek to whisper, ‘I can’t breathe’
And you sit there in the house on couch and watch it on TV
The most you give’s a Twitter rant and call it a tragedy
But truly the travesty, you’ve been robbed of your empathy”.
Anche questo testo è scritto con riferimento alla morte di Eric Garner, ma suona drammaticamente attuale.
Non mancano gli ospiti, ma i protagonisti dell’epopea restano sul trono. Anche in “Ju$t”, affiancati da Pharrell e Zack De La Rocha, con una traccia e un ritornello che è un instant anthem assoluto: Master of these politics, you swear that you got options (Slave, yeah) Master of opinion ‘cause you vote with the white collar (Slave) The Thirteenth Amendment says that slavery’s abolished (Shit) Look at all these slave masters posin’ on yo’ dollar (Get it) Look at all these slave masters (Ayy) posin’ on yo’ dollar (Get it, yeah).
Se “Never Look Back” ha un’andatura quasi acid-techno come i momenti più veloci e vertiginosi del loro disco d’esordio, ma con una nuova fresca linfa vitale a livello di composizione e struttura della traccia, “The Ground Below” fagocita, scompone e sputa fuori da un megafono il celebre giro di “Ether” dei Gang Of Four. Un pugno nello stomaco.
Le due tracce di chiusura portano a compimento il percorso di ricerca di RTJ4 in una direzione d’autore che non è mai mancata soprattutto nel secondo album. Un’altra leggenda della musica soul, la divina icona black Mavis Staples, regala la sua voce nella suggestiva e introspettiva “Pulling The Pin”, dove compare peraltro anche un’altra voce, aliena e alienata, quella di Josh Homme.
E infine l’emozionante crescendo di “A Few Words For The Firing Squad (Radiation)” sospinto dal sax cinematografico di Cochemea Gastelum e dalle chitarre di Matt Sweeney, storico componente degli Skunk e dei Chavez.
“This is for the do-gooders that the no-gooders used and then abused
For the truth tellers tied to the whippin’ post, left beaten, battered, bruised
For the ones whose body hung from a tree like a piece of strange fruit
Go hard, last words to the firing squad was, ‘Fuck you too’”.
Chiamarli profeti è riduttivo.
93/100