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Se “Shabrang” fosse un mese, sicuramente sarebbe settembre: e in questo settembre 2020, poi, Sevdaliza non può che farci sentire sintonizzati più di quanto già non fossimo con l’inizio di un autunno imprevedibile che ci fa sperare e temere il futuro, tra la lotta alla pandemia tuttora in corso e le tensioni sociali che in America e altrove continuano a provocare vittime, rabbia e proteste.
Sevdaliza ha sempre rifuggito le etichette (figurate e letterali, ndr) fin dai suoi esordi; il suo primo LP, “Ison” (2017), già la classificava come inclassificabile regalandole un biglietto di sola andata per quell’Olimpo musicale trasversale ai generi che parla di scuri cieli nebbiosi e atmosfere sensuali, intimiste, spesso sofferte senza le quali l’eterogenea scena trip-hop – e non solo – di Bristol tra gli anni Novanta e il Duemila non sarebbe mai esistita.
Il progetto artistico che ha originato “Shabrang” riecheggia infatti la depressione di cui Sevdaliza ha sofferto dopo la pubblicazione di “Ison” e in essa sono convogliati già vecchi traumi e paure della Sevdaliza bambina che dovette trasferirsi da Teheran ai Paesi Bassi a soli cinque anni. Ma la difficile integrazione nel mondo occidentale di cui l’artista ha già cantato e di cui canta anche in questo album è stata la spinta decisiva per una coraggiosa fusione tra lo stile vocale tipicamente persiano e orientale del melisma e una produzione elettronica all’avanguardia creata passo passo insieme al producer Mucky: grazie alla quale la musica di Sevdaliza porta oggi un marchio di straordinaria coerenza stilistica e compositiva che la accosta a FKA twigs e a Arca e le permette di completare l’ideale triade di eroine transumane del biennio 2019-2020 in grado, ormai, di associare alla nuova elettronica più ruvida e alla disgregazione della voce con vocoding e pitching il salto improvviso e frequente ai timbri al naturale e a dolcissime, contrastanti sinfonie al pianoforte e agli archi; in un incontro costante non solo fra generi ma tra spiritualità, miti e tradizioni di culture finora considerate ancora lontane tra loro, quando non addirittura agli antipodi.
Se infatti il titolo dell’album e di una delle tracce si rifà a una leggenda persiana (Shabrang è il cavallo sul quale il principe Siyâvash attraversò il fuoco per dimostrare la propria onestà ai sudditi) i testi dell’album sono intessuti di riferimenti alla Genesi e in particolare alla figura dell’angelo, rivisitata come ideale irraggiungibile di purezza e abnegazione al quale le donne dovrebbero smettere di aspirare: la Joanna angelica che da il nome al primo pezzo si rivela luciferina, distruttiva e narcisista e la sua ossessione di essere perfetta è ciò che Sevdaliza cerca di superare nel corso di tutto l’album fino a richiamare con sarcasmo, in una “The Darkest Hour” quasi da club, un’Eva dell’Eden che può essere la donna perfetta soltanto nell’utopia di un giardino privo di tentazioni e di pericoli al quale di certo il mondo reale non può – e forse non deve – più corrispondere.
Shabrang è la forza di oltrepassare vergogna, dolore e paura fino a mostrare con orgoglio la propria umanità e le proprie ferite; ma restano molte altre chiavi di lettura da scoprire, ascolto dopo ascolto, in un album che forse renderà questo settembre meno amaro.
88/100
(Claudia Calabresi)