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Adrian Thaws nasce a Knowle West, un quartiere povero di Bristol sud. La madre anglo-guyanese, Maxine, si suicida quando Adrian ha quattro anni; il figlio orfano vive con la nonna, segue le orme del padre musicista e abbandonico e le oltrepassa, si fa coccolare dalle droghe e dall’alcol, passa un breve periodo in prigione. Sullo sfondo c’è un’Inghilterra apatica e impaurita dal nuovo millennio: ma anche un collettivo che a Bristol si sta facendo conoscere, il Wild Bunch, che accoglie Adrian tra le sue fila. Dentro ci sono Grant Marshall, Robert Del Naja e Andrew Vowles, vale a dire quelli che poco dopo formeranno i Massive Attack: nel 1991 esce “Blue Lines” (1991) al quale Adrian – ora Tricky – da un contributo fondamentale. L’incontro con la giovanissima Martina Topley-Bird permette la registrazione di un singolo, “Aftermath”: la voce fantasmatica di Martina si fonde a una collezione di sample tra i più disparati in mezzo ai quali la voce di Leon Kowalski, replicante rinnegato di Blade Runner, risponde così all’investigatore che lo sta interrogando prima di sparargli: “Let me tell you about my mother…”
È il primo indizio del disco che verrà: un diario allucinato e stordente di frammenti di vita dedicati alla madre, il cui nome si fonde in un’unica parola con il cognome, Quaye, trasfigurando la donna in una sorta di musa misteriosa e benevola che accompagna Tricky nel karmacoma delle droghe, tra ricordi di un’adolescenza turbolenta e fantasie di un futuro sempre più distopico e inquietante. Musa incarnata: Maxine-Martina domina incontrastata nel disco, determinando una fortunata confusione tra maschile e femminile dove la voce di Tricky arriva a a essere soltanto un’eco quasi impercettibile.
Il pezzo riscuote successo. Tra il 1993 e il 1995 Tricky compone le altre tracce dando origine a quello che è, insieme a “Blue Lines” e “Dummy” (1994) – e forse più ancora di essi – il vero capostipite del trip-hop: “Maxinquaye” lo è nella mescolanza prima inimmaginabile di soul, jazz e hip-hop, nel riciclaggio costante dei sample, nelle ricorrenze oniriche qua e là tra i testi e in una Bristol descritta con paura e desiderio, nello sfaldamento continuo dei suoni e dei ritmi in altri suoni e ritmi. Il Decadentismo postmoderno che protegge e imprigiona una generazione schiacciata tra i millenni può trovare un senso soltanto grazie allo sguardo di Tricky e alla sua contemplazione compiaciuta e un po’ masochista del mondo in pezzi che lo circonda, dove non sembra esserci posto per lui e per tanti altri: “Here is a land that never gave a damn/‘Bout a brother like me and myself because they never did”. Ma è sempre Martina a prestare la voce a “Black Steel”, cover dei Public Enemy, ampliando la denuncia alle discriminazioni della società nei confronti dei neri anche a quelle contro le donne e tracciando le prime fondamenta di un movimento antirazzista femminista e intersezionale – vi ricorda qualcosa? -.
Una precisazione: nel 1995 io che scrivo avevo due anni. Non sapevo niente di musica, niente della musica che stava trasformando Bristol, niente ancora di Tricky che pubblicava, il 20 febbraio, il suo album di debutto. No, in quel periodo non me ne facevo niente di tutto ciò che non fosse una ninnananna o una filastrocca, e questo a posteriori fa un certo effetto: ho scoperto il mondo del trip-hop solo a vent’anni. In un certo senso la musica del passato fa parte del mio futuro tanto quanto quella che uscirà domani: sono nata negli anni Novanta e da millennial forse non sarò mai del tutto in pari con la musica venuta prima di me. Perciò non posso parlare di “Maxinquaye” come qualcuno che in quel periodo c’era, ma proprio per questo apprezzo che il ricordo di una società invasa dal disincanto e dalla paura del nuovo millennio possa essere così vivido, più di qualsiasi foto, in questo LP. La vita del singolo individuo e un momento preciso nella storia, col tempo, diventano il simbolo di ogni generazione in metamorfosi, di ogni era di terrore e speranza. Il 2020 è un’ottima chance per scoprire – o riscoprire – “Maxinquaye”.