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In una coltre di fumo, in un bianco e nero nebbioso, prende le mosse Shadow Kingdom, sottotitolato The Early Songs of Bob Dylan benché contenga in scaletta anche un pezzo pubblicato nel 1989. Ritorna Bob Dylan a più di un anno di distanza dall’uscita del suo ultimo album, il capolavoro Rough and Rowdy Ways, dal quale non esegue alcun brano ma da cui mutua le sonorità, e a più di un anno e mezzo dal suo ultimo live, che si era tenuto a Washington nel dicembre 2019. Più che il live streaming di un concerto è un vero e proprio film black and white, l’ennesimo diamante della straordinaria carriera di Bob Dylan. L’evento è stato registrato lo scorso maggio in California, presumibilmente in studio. I titoli di coda, in pieno stile dylanesco, cercano di aumentare il mistero e confondere gli spettatori ringraziando il Bon Bon Club di Marsiglia. Una venue con quel nome a Marsiglia però non esiste, e fonti autorevoli concordano sul fatto che tutto sia stato girato a Santa Monica. A giudicare dalle riprese, inoltre, la musica sembra pre-registrata. Nessun suono di applausi, mimiche evidenti, un’opera teatrale-cinematografica, quasi una pièce brechtiana contemporanea.
Di strettamente contemporaneo, però, ci sono soltanto le mascherine del quintetto che accompagna Dylan. Gli spettatori-attori che di tanto in tanto compaiono ballano, bevono e fumano all’interno della venue in un’atmosfera Anni ‘40s o ‘50s. Dylan, che cantando ovviamente non indossa la mascherina, sembra vivere al di fuori del tempo proprio come quei personaggi. Tutti si aspettavano una grande sorpresa e come al solito Bob l’ha confezionata con grazia. Gli “stage” in cui la band esegue i tredici brani del set sono piuttosto diversi tra loro. Palchi veri e propri, col pubblico a volte seduto, altre volte in piedi a ballare, molti a bere e a fumare. C’è un palco col pavimento a scacchi che sembra uscito da Twin Peaks. A un certo punto Dylan, come sempre elegante, è al centro di un salone amplissimo e la band – anzi, solo una parte di essa – si intravede in lontananza. È tutto quello che aspettavamo dal nostro Poet Laureate.
Nell’inedita band che affianca il Premio Nobel ci sono Buck Meek, chitarrista del quartetto americano Big Thief, Janie Cowan, Alex Somers, Joshua Crumbly e Alex Burke: un gruppo d’occasione, che non aveva mai suonato con Dylan. Misteriose anche le comparse nel locale: quasi tutti giovanissimi, in alcune parti del concerto seduti e in altre, invece, a ballare e cantare. In altre situazioni nessuno spettatore è inquadrato e la band sembra suonare in una location vuota, cosa che rende il tutto ancora più affascinante e straniante. Molti gli afroamericani, a ribadire il legame tra Dylan e quel mondo. Ci sono due giovani ragazze proprio accanto a lui mentre esegue “I’ll Be Your Baby Tonight” e una di loro gli spolvera la giacca durante la performance. Ragazzi scatenati, sigarette a volontà, cappelli eleganti. A un tratto appare un manichino tra il pubblico. Siamo di fronte a una pièce musicale-teatrale: le gestualità di Dylan, la sua voce graffiante e avvolgente, la sua delivery unica danno ai brani una potenza infuocata. In questo ambiente surreale, una venue giunta da tempi lontani, Dylan sfodera una serie di performance davvero notevoli.
Shadow Kingdom è un’opera che, come tutte quelle del cantautore, esiste in un crocevia (crossroads) di elementi tutti indispensabili che rendono unico l’opus dylaniano. La sua voce, sempre più brillante, dalla potenza omerica, racconta storie che sembrano provenire da un irraggiungibile e indefinibile eterno. Ogni declinazione della sua produzione, infatti, musicale, letteraria, dell’arte visuale, dell’arte cinematografica, è parte di un puzzle nel quale ogni pezzo è significativo. La musica – folk e blues, country e ballate – qui è dominata da chitarre che creano dialoghi originali e caldi, da una splendida fisarmonica, da linee di basso e da un apparato ritmico essenziali. Dylan è nella parte: a volte seduto, a volte in piedi, a volte alla chitarra, a volte all’armonica, immerso in una misteriosa atmosfera lynchiana. È masked and anonymous, per citare il film del 2003 di cui è protagonista e di cui ha scritto la sceneggiatura, anche se è l’unico del gruppo senza la mascherina.
La scaletta, tredici brani per cinquanta minuti di musica, è pienamente azzeccata. Solo un paio dei brani in scaletta era stato suonato dal vivo negli ultimi anni e ogni singolo pezzo ha una veste completamente nuova. Si parte con “When I Paint My Masterpiece”, che presenta nel testo piccole modifiche. Dylan è alla chitarra e aggredisce le parole con vibrante energia. Alla chitarra suona anche la travolgente “I’ll Be Your Baby Tonight” e una straripante, e dal testo ampiamente riscritto, “To Be Alone with You”, che mancava dal vivo dal 2005. È alla chitarra, in un salone vuoto, con il gruppo molto distante, appena visibile sullo sfondo, anche in una toccante “Forever Young”, durante la quale, però, suona solo qualche accordo qua e là: per tutto il brano, infatti, “carica” il significato del testo con la gestualità, indicando un ideale interlocutore con l’indice e mostrando uno strong arm per dare più forza ad alcuni versi del pezzo. Dylan è alla chitarra anche nell’energico blues “Watching the River Flow”, che corre come un treno merci a tutta velocità.
Dylan estrae dal cilindro anche altre sorprese. Da Blonde on Blonde (1966) esegue “Most Likely You’ll Go Your Way (And I’ll Go Mine)” in una versione cupa e impetuosa, e “Pledging My Time”, un blues anfetaminico e torbido, che non veniva proposto in concerto dal 1999. Un’altra grande sorpresa è stata “What Was It You Wanted?”, pezzo tratto da Oh Mercy (1989), che mancava in uno show dal 1995. Bob, seduto, dà vita a uno dei pezzi più intensi dell’intero film, un brano drammatico e minaccioso, arricchito da uno splendido assolo di armonica. Le atmosfere noir del pezzo sono perfettamente intonate con la venue e col titolo del progetto, che proviene da un racconto fantasy di Robert E. Howard pubblicato su una pulp fiction nel 1929. Anche “Wicked Messenger”, che mancava dal vivo dal 2009, è grintosa e pungente, dai raffinati e intricati richiami biblici, che in questa veste ha una potenza ipnotica. Anche qui l’armonica taglia l’aria.
Trionfale è anche l’esecuzione di “Tombstone Blues”, quasi a cappella, che mancava in concerto dal 2006. Dylan ne esegue una versione particolarmente spoglia e appassionata: non è al centro della scena ma è l’ultimo a destra. Tutta la band, alla sua sinistra, lo accompagna nella declamazione: il testo è quasi recitato. Dallo stesso album, Highway 61 Revisited (1965), sono tratte anche “Queen Jane Approximately” e “Just Like Tom Thumb’s Blues”, poetiche e magnificamente eseguite. La conclusione del film, girato dalla registra israeliano-americana Alma Har’el, è affidata a “It’s All Over Now, Baby Blue”. “Yonder stands your orphan with his gun / Crying like a fire in the sun”, canta Dylan. Le sue parole fanno bene all’anima.