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Jean-Michel ha una passione per le madeleines, vive a Metz e perde sangue dal naso.
Ha un giradischi che scava i solchi dei suoi trent’anni, disannebbiandone gli inverni uno a uno.
Sabrina è un ricordo scolpito in marmo, a metà tra il nero ed il rosso, che arde spostandosi intatto nel buio di un pompadour plat.
La musica è un tappo, s’infila lì dove il corpo la vuole. Dirige precisa i pensieri facendone una dimora o arrestandone il flusso. Come se fosse ovatta.
#3
L’amaro dell’aroma di mandorla era perfettamente calibrato. Stemperava quell’odore di vaniglia per niente sottile, incorporandosi al profumo di buccia di limone appena grattata. L’amalgama iniziava ad assumere una di quelle consistenze che nessuno può realmente descriverti, non era né impasto né spuma.
Gusci di uova rotte, grembiule impataccato, disordine appiccicoso.
Osservavo quel composto con una fiducia che era pure eccessiva, godendo della luce naturale che il giorno nuovo mi dona prima dell’infornata. Non del tutto pronto, andavo riponendolo in frigo come si fa con certe fasi dell’esistenza, quando vidi comparire dal suo interno dei filamenti che sarebbero stati bene ovunque tranne che lì!
Mi svegliai profondamente sorpreso, sudato, tra le lenzuola impregnate di disgusto. Mendicai i cuscini e li strinsi forte a me, per levarmi dalla gola quella morsa stretta, come se nessun altro abbraccio potesse rassicurarmi del fatto di essermene liberato. Nessun guerriero decapitato, niente colori lividi né battaglie insanguinate. Ciò che mi suggestionava era l’atmosfera dentro alla scena, riuscita come una musica data in prestito alla cinematografia, scelta per quel set e solo per quello.
Con quella forma che è simbolo di speranza per i pellegrini erranti e il profumo che è quello del tempo perduto di Proust, la madeleine era e resta il pezzo forte della bottega; la tinge tutta del suo colore e, predominando, la rischiara. Nonostante la torbiera sia per molti un paesaggio neutro, io rimasi crucciato di fronte all’intrusione di pezzi di erbaccia in quel preparato. Com’erano finiti nella terrina, non essendo parte del mio residuo diurno?
Che la notte sia nera non c’è dubbio, ma l’incubo è tale solo per chi lo fa. Quello scenario tornava a trovarmi non appena la soglia della vigilanza s’abbassava, come a svelarmi che ciò che stavo vivendo, per quanto buono e famigliare fosse, non era commestibile (e non lo sarebbe mai stato).
Era un periodo felice rispetto a tanti altri. Ero tornato ad avere un paio di appuntamenti quotidiani che non odoravano di pane. Il primo era al mattino, col regolabarba. Evitavo di radermi del tutto, così non da non versare sangue nel lavandino anche per via del mento, e nel frattempo mi risparmiavo un aspetto da viceparroco. Il secondo rendez vous era alla sera; chiudevo la boulangerie e incontravo Sabrina.
Le mie notti si preparavano a farsi disturbare nel sonno, in compagnia di gustosissimi sorsi di Kir Royal, riviste sparse, post-rock parigino e nuove tendenze che lo ampliavano e non mi richiedevano nessuna lucidità se non quella di poterle appuntare. Mi ero riappropriato dell’ascolto attivo nei confronti della musica strumentale scoprendo che, nella sua timida loquacità, se non ti parla è perché non la stai ascoltando oppure lo stai facendo entro una certa misura.
“Nuite Noir” dei Lost In Kiev disseppellì molti dei miei timori per riportarli supini sul pelo dell’acqua e farli galleggiare come morti. Mi ritiravo nel buio di un concept album che se ne stava in silenzio e che al tempo stesso cresceva d’intensità compositiva. Si guadagnava angoli del mio spazio vitale per poi risucchiarne dei pezzi.
Mi chiedo come mai in certi generi musicali, ammesso che vi piaccia ridurre la musica a scatolame, valga la scelta stilistica di un tempo che si dilata. Forse per farlo accodare al fenomeno interiore che si scatena in chi ascolta e lì, nel fondo, il tempo lo immagino un po’ meno empirico rispetto a quello che sono abituato a percepire. A seguire si modella anche lo spazio, che tiene distanti i membri della band l’uno dall’altro, a volte per otturare la luce tramite le loro sagome, altre per farne passare un po’ ai lati dei loro contorni. La loro performance non è mai uno show ma un bacino idrico, dove la tensione arriva a raccolta per deflagrare a conclusione di ogni traccia. E i palchi appaiono enormi.
I have dreamt of your hands/ There was soot/ On the tips of your fingers/ You were writing on my skin.
Difficile non farsi incatenare da un sogno se qualcuno è lì a scriverti sulla pelle, con le punte delle dita sporche di fuliggine. Mirrors e Somnipathy possiedono la stessa natura della notte quand’è così, e ne sublimano il tormento nell’aria rareffatta di Celestial. Un vociferare di donna, un tremolo che ne depotenzia il suono, un riverbero che permette di modularlo. Certi sintetizzatori sembrano abbindolare anche i demoni; e i movimenti oculari rallentano. Emersion, ci si risveglia a chi finge.
L’avete mai guardato negli occhi, un bambino, mentre sta dicendo «non ci riesco»? Avevo otto anni ed erano già diverse le cose in cui fallivo, tra queste l’addormentarmi. I mostri nella mia stanza erano pensieri brulicanti che, come uno sciame di piccolissimi insetti, si urtavano l’uno contro l’altro e si muovevano alla rinfusa spingendo in direzioni diverse.
«É tutto passato». Come se premere l’interruttore dell’abat jour bastasse.
Our black night never end, never stop, ever falling down.
Sabrina ebbe presto da ridire sulle scelte che avevano a che fare con la mia vita e non con la sua. Quel continuo vociferare deve aver inquinato le mie poche attitudini per nulla intrinseche, diseredate per uno strano scherzo transgenerazionale. E in tutto quell’aggrapparmi ad una passione diventata lavoro e ragione di vita perché ne governava le leggi, lei mi toglieva coraggio.
Il buio rincorreva l’abbaglio seguendo le regole di un gioco sporco. Mi schieravo ora una parte ora dall’altra, a seconda del bisogno di ripiegarmi sulle mie ombre piuttosto che di uscire allo scoperto. Sarà capitato anche a voi, di intraprendere una relazione ed avere la sensazione di attraversare uno stesso corridoio al buio, daccapo.
«Comunque non ce l’avresti fatta». Ecco ciò che mi sghignazzava in testa, meschino, col volto di chi mi stava accanto.
Chissà se lo provate, un minimo del mio imbarazzo, per l’uso improprio che si fa della parola insonnia. Non è forse quel rantolo che, presto o tardi, ti costringe a naufragare?
Era come stringere tra le dita un prisma a base triangolare. Mi concentravo sull’unico colore apparente, ne vedevo riflessi altri sette. Sfumavano tutti un centinaio di volte, si attenuavano, poi si disperdevano.
Ed io mi addormentavo avvilito. Era già mattino.
…continua… (il 4° episodio di “Dal Motore Al Piatto” vi dà appuntamento a gennaio 2022)
(Antonia Salcuni)
IG: @eco_disco_gramma
“Dal Motore al Piatto – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta” è racconto a episodi a sfondo musicale.
Le precedenti puntate le puoi ritrovare qui:
Dal Motore al Piatto #1 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #2 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta