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Jean-Michel ha una passione per le madeleines, vive a Metz e perde sangue dal naso.
Ha un giradischi che scava i solchi dei suoi trent’anni, disannebbiandone gli inverni uno a uno.
Sabrina è un ricordo scolpito in marmo, a metà tra il nero ed il rosso, che arde spostandosi intatto nel buio di un pompadour plat.
La musica è un tappo, s’infila lì dove il corpo la vuole. Dirige precisa i pensieri facendone una dimora o arrestandone il flusso. Come se fosse ovatta.
#4
Saint’Etienne si eleva maestosa, imponendosi sull’impeto contemplativo al quale ti istiga. Tu, un alieno che tentenna nel volerci entrare. E lei, un’imperatrice presuntuosa che un po’ se l’aspetta.
Girandolare attorno alla cattedrale è un’estemporanea obbligata, se sei lì che passeggi per l’Ancienne Ville.
Lanterne du Bon Dieu, è così che la chiamano. Immobile, nella vastità di tutto quel vetro racchiuso in centinaia di finestre. Ogni guglia è un occhio innalzatosi dal suolo. Il rosone è un disegno che, ad osservarlo più del dovuto, diventa un vortice di raggi da conservare in tasca per sfregarlo di tanto in tanto, come si fa con i talismani. Resti in attesa di un beneficio che un pezzo di marmo qualsiasi ti avrebbe negato per partito preso, mentre i tuoi piedi avanzano per vagheggiare tra una navata e l’altra. Non tutti decidono di raggiungere l’abside che, oltre ad espandere la base di un monumento, ospita generalmente l’altare maggiore. E non sempre si è disposti a percorrerlo, un selciato, se non c’è da scoprire com’è che finirà. Allora tanto vale chiudere gli occhi.
Lo fanno i credenti, gli agnostici, le suore, i redenti, i ladri, anche i turisti. Varcare la soglia di una chiesa non ha molto a che fare con la religione. Equivale a sbattere uno sportello e a poggiare la nuca sullo schienale del sedile posteriore. Rumori, immagini, odori: tutto inizia a scorrere alle spalle. Il silenzio cade a piombo, e ci si lascia guidare.
Piccola, grande, più o meno affollata. Non c’è città che non t’assorba. Ognuna diventa a suo modo nauseante. Quando Metz mi nausea raggiungo la capitale.
La metro di Parigi t’inghiotte. Tre centinaia di stazioni, altrettante le compulsioni che passano dal sistemare la tracolla sulla spalla a mettere la borsa in vista sulla coscia; la visuale periferica lì dentro si affina.
Sabrina odiava viaggiare da sola, mi chiedeva spesso di accompagnarla a Parigi. Solo che, una volta arrivati, non mi voleva. Da brava ricercatrice faceva di tutto per tenermi fuori dai piedi. Mi toccava escogitare passatempi che non avevo voglia di pianificare e mi ripiegavo sugli svaghi, itinerando.
Innanzitutto c’era Pere Lachaise, il cimitero monumentale più sincero al mondo, dotato di quella crudezza spoglia che emana ogni tipo di lapide. Lì potevo piangere e lasciare fiori sulla tomba di chi non avevo mai conosciuto ma di cui, in fondo, conoscevo un paio di canzoni e ricordavo qualche aforisma.
E poi c’erano loro, les banquetistes. Pensano tutt’oggi di far parte di un mercato di strada che non sarà mai un’attrazione turistica. Io li considero ingenui ed anche un po’ utopisti.
Fu in quella cagnara che scoprii il frontman dei Pineapple Thief, una di quelle band troppo britanniche per i miei gusti. Ostentavano quei tratti che volgarmente chiamiamo proggy, mescolati ad elementi commerciali sfornati dai peggiori marchi di fabbrica. Quale poteva essere il valore aggiunto di chi si vestiva, all’occorrenza, da solista? Cos’aveva da dire, da un’altra parte, Bruce Soord?
Cercavo un intrattenimento per sopperire all’angoscia di chi rimane ad aspettare. E riempii quell’attesa lasciandomi attrarre dalla copertina di un disco che ragionava alla Andy Warhol. Collocava la stessa faccia in più punti della tavolozza, in una successione di emozioni che condizionano la direzione verso la quale guardare. Una sfocatura indice di un movimento smanioso dove i nasi diventano tre, gli occhi quattro. Non c’è confine fra un tratto e l’altro, ogni tinta sbava; tutto è frainteso.
Un paio di telefonate tra un’indagine e l’altra, tempo scaduto. Ecco, bisognava rientrare.
Entrare in macchina con Sabrina era come continuare ad attraversare da solo una città. Se anche per voi è un’abitudine e quasi mai una scelta, non vi stupirò nel dirvi che la vedevo scorrere in ogni dettaglio mentre lei mi ignorava. I ponti, i corsi d’acqua, i mendicanti, le carezze date di nascosto, gli angoli verdi, i vicoli stretti privi di sbirri e pieni di piscio. Il silenzio cadeva a piombo, mi lasciavo guidare. E finivo per chiudere gli occhi.
A gita fuori porta terminata, mi ritrovai con la voglia impellente di raccoglierne ogni rumore, immagine, odore. Fare ordine, consolidare quel che serve realmente, depositarlo nel magazzino mnestico. Forse è a questo che servono le vie di fuga, a rivestire di un senso le innumerevoli sfumature di una stessa faccia persa.
Ascoltai “All This Will be Yours” a volume moderato, con la mano pesante del solito bicchiere, discreto come chi quel disco lo stava cantando e con le gambe a penzoloni, sospese come lo erano le storie che sentivo suonare. Le sette emozioni di base sono universali, dicono. Allora varrà lo stesso per chi proviene dalla contea Somerset. Invece no, tutto raddoppia, come in una cattedrale costruita sulla base di due edifici. L’emotività si moltiplica, per chi coglie il lato intimistico in quel che guarda. Ecco cos’aveva da dire, in tono progressive, Bruce Soord. E se c’è qualcuno ad aver capito quanto possa far schifo ciò che si lascia a chi rimane, questo è lui. Lasciare cosa? E a chi, poi.
You can’t re-write your dreams/ Or re-negociate your terms/ This is our ocean now. La vampa si espandeva per l’ultima volta quella sera, bruciava sui versi di You Hear the Voices aspettando che la canna fumaria smettesse di fare il suo lavoro. Il divano era tiepido, ormai. La mia mano cedette non appena mi arresi al sonno. Il bicchiere rimase intatto per poco più della metà. Così la bevanda cadde sul tappeto acustico di One Day I Will Leave You, mentre la pioggia batteva a taglio sulla finestra. Del resto, minuscoli frammenti che se ne stavano lì per terra, leggerissimi. E fuori, un lampione che diffondeva una luce canonica.
…continua…
(Antonia Salcuni)
IG: @eco_disco_gramma
“Dal Motore al Piatto – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta” è racconto a episodi a sfondo musicale.
Le precedenti puntate le puoi ritrovare qui:
Dal Motore al Piatto #1 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #2 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #3 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta