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#5
Sbadigliai fino a vuotare i polmoni, predisponendo la schiena a creare spazio tra una vertebra e l’altra della sua colonna.
Aprire gli occhi è l’ultimo passo che mi permette di riprendere contatto con la realtà. E la cognizione di essersi addormentati su un divano, per chi come me è attaccato alle proprie abitudini, sta per un paio di contingenze che rispettivamente sono inaccettabili e procurano angoscia: essere ospiti o essersi immobilizzati per conservare una finta quiete. E quando l’impressione di essersi assentati diventa una sensazione, quell’indolenza si fa sconcertante.
«Dovesse andar storto qualcosa, mentre la portata termica aumenta, i fumi di combustione perderebbero ogni ragione. E se non riuscissero a defluire all’aria aperta?» disse Marcel indicandomi il pompadour-plat.
Sebbene non sia dotato di un vero e proprio motore, il camino è un organismo imparentabile agli esseri viventi, dal momento che respira. È addirittura dotato di un elemento costitutivo attraverso il quale possiamo riconoscerlo: la canna fumaria, responsabile del tiraggio dell’aria. Ne coordina il soffio, assicurandone il non ritorno. Ed è grazie a lei, che posso godermi le fiamme danzare senza dovermi preoccupare che qualcosa vada realmente a fuoco.
Ero lì, da una decina di minuti a premere l’ovatta contro la narice sinistra, appena sveglio. E lui, ad esporre una teoria improvvisata e distante dalla mia, secondo la quale i camini funzionano similmente ai nostri corpi.
La prima ragione per cui non mi confido con degli amici, è che non ho degli amici. La seconda, riguarda il voltastomaco che mi danno. Mi riferisco a quel modo dimostrare un tipo di lucidità che appartiene solo a chi esamina gli affari degli altri, e a quella premura che andrebbe risparmiata per chi l’ha richiesta.
Marcel era un amico di Sabrina, cresciuto sul Meno, a Francoforte. Proveniva da una dinastia di banchieri. Gente che si era assicurata la ricchezza attraverso il controllo, mica da mangiare sfornando il pane!
Quando veniva a farmi visita, non faceva altro che descriverla come una tiranna in grado di aprirsi all’altro con selettività, per poi lasciar bruciare intenzionalmente tutto ciò che aveva toccato. Non conoscevo altre mosse per essere assertivo e non avevo intenzione di calarmi nelle turbolenze della loro amicizia. Così, annuivo.
Mai stata tra le mie favorite, non credo se lo fosse chiesto prima di entrare in pâtisserie. Stavo mangiando la tartelette al limone che mi aveva lasciato, “Not To Disappear” girava sul piatto.
I feel numb/I feel numb in this kingdom.
Mi costarono un particolare senso di stordimento, quelle quattro chiacchiere lì. E fu imprudente la scelta di affidarmi ai Daughter che, con la concisione radicata nel loro stile, mi costrinsero a scrutare la parete in ogni dettaglio. Mi soffermai prima sulla carta patinata dell’orologio in legno leggero, chiedendomi perché non ci fosse una copertura in vetro. Poi sulla scena galante dipinta a mano, affissa sullo specchio decorato con fili di perle. Mi ci specchiavo poco o niente, se non per seguire il groviglio dei baci miei e di Sabrina, tenendo d’occhio le mani animarsi da un’altra prospettiva. Concentravo in quelle visioni il poco piacere che mi consentivo provare. Ed è probabile che, anche lì, lei ci vedesse solo sé stessa.
I need new ways to waste my time/ I need, need new ways / I’m trying to get out / Find a subtle way out / Not just cross myself out / Not just disappear.
Elena Tonra mi parlava attraverso una di quelle scritture di competenza giovane che pare chiacchierino attribuendo alle parole un significato assoluto.
Tornai su New Ways per conferire più nitidezza ad ognuno di quei dettagli, al passo infrequente dei cambi di ritmo che mi lasciavano tutto il tempo di sezionarli. Il brano mi restituiva un bisogno di rientrare in traiettoria ma, tra quelle sospensioni che riverberavano solo leggermente, perdevo il baricentro e mi riassentavo.
Non so perché, poco prima di mandare al diavolo Pauline, decisi di sistemare il pompadour-plat in sala da pranzo. Nonostante fosse stato progettato per essere collocato in piccole stanze da letto, mi feci ingannare dalla robustezza delle cose e dei fatti, più che dalla loro entità, tanto che con gli anni mi convinsi di aver posto ogni elemento nell’ordine più adatto.
Like it’s alright
Come se le cose su quella parete, non si sa come e secondo chi, andassero bene.
La tartelette al limone non riuscivo proprio a considerarla un dono, e nemmeno quei discorsi. Come nel dipinto I mangiatori di patate, dove ognuno ha più fame dell’altro e tende da mangiare a chi sta guardando da un’altra parte.
I’m not searching for replacements/ But we are like broken intruments.
Tollerai Il disco finchè No Care non mi cadde come una piuma di piombo sulla vestaglia.
È vero, Sabrina si lasciava attrarre dalla sterpaglia e appiccava il fuoco.
Portai a letto ogni fantasma. Mi sentivo rotto.
…continua…
(Antonia Salcuni)
IG: @eco_disco_gramma
“Dal Motore al Piatto – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta” è racconto a episodi a sfondo musicale.
Le precedenti puntate le puoi ritrovare qui:
Dal Motore al Piatto #1 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #2 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #3 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta
Dal Motore al Piatto #4 – Storia di un’Epistassi a Trazione Diretta