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The Cure, Unipol Arena, Bologna, 31 dicembre 2022
Ci sono degli artisti che ti accompagnano per sempre, che ti segnano nel profondo e che marcano i momenti principali della tua vita: ecco, i Cure sono questo per me. Ognuno ha i propri. Cosicché ieri sera a Bologna è stato come andare a trovare un parente, lo zio Robert, lo chiamerei, ma anche di più perché i parenti non ce li si sceglie e invece io e i Cure ci siamo trovati e voluti, guardati e amati a prima vista. Ogni quattro anni ci vediamo, con Robert, e lui è sempre lì e io pure, lui è sempre lui e pure io mi sento (abbastanza) me stesso.
Ma la cosa più importante è che i Cure godono nel ripercorrere la loro carriera nei live, cambiano moltissimo le scalette in ogni tour e non si vergognano (mai!) di quello o quell’altro momento o periodo o disco, pur sapendo benissimo quali sono le corde migliori e quelle peggiori (certamente gli ultimi due album) da toccare. E se alla fine si va a confrontare la setlist di Bologna e quella dell’ultima volta che li vidi (a Firenze nel 2019, la mia nona volta, ieri è stata la decima) c’è una grandissima varietà. Non è facile essere in pace con il proprio passato, questo vale sia per noi persone che per gli artisti: ce ne sono alcuni che snobbano alcuni loro dischi, e magari anche quelli più amati dal pubblico perché si sono stancati di farli ma soprattutto si sono logorati nell’essere considerati solo “quelli di…”: e invece è saggezza accettare che noi siamo quelli lì, quelli da cui veniamo, noi siamo quello che abbiamo fatto e abbiamo dimostrato di fare e sarebbe bello poter essere visti (dagli altri) sempre come persone nuove e diverse, ma non funziona così. E si vede che Robert Smith è pacificato con se stesso: quando lo vidi per la prima volta, nel 1992 a Milano, era fermo e disse sì e no una parola, ieri sera parlava molto (a dire il vero, borbottava), girava sul palco, guardava la platea come se volesse vedere negli occhi ciascuno dei propri fan, ma soprattutto sorrideva.
Ma entriamo un po’ negli aspetti tecnici: primo punto da sottolineare, Perry Bamonte è lì per caso e sarebbe meglio se ne tornasse a casa. Non ce n’è bisogno di lui, O’Donnell fa già tutto il necessario con le tastiere e Smith e Gabrels il resto con le chitarre, lui è quello che ha caratterizzato i Cure da “Wild Mood Swings” in avanti e mi pare di aver già detto tutto. La prima volta che me lo trovai davanti, nel 1996 al Forum di Assago, sembrava che avesse imparato a suonare il giorno prima. Tra l’altro le poche cronache di questo mese che ho letto (non volevo sapere nulla prima del live) sono di un clima non buonissimo per via della sua presenza. Secondo me è vero, non serve a nulla nell’economia della band, è chiaro che quando c’è un musicista che non fa nulla, gli altri malignano, succede nello stesso modo quando hai un collega per cui devi fare anche il suo lavoro ma lui prende la tua stessa busta paga.
Secondo aspetto: i nuovi brani funzionano (ne hanno suonati quattro). Sembrano davvero belli. E sono anche uniformi (il che è una caratteristica che ha qualificato gli album migliori dei Cure) dato che la loro cifra stilistica costante è quella del sogno, di una malinconia agrodolce classicamente smithiana che racconta di quello che sarebbe potuto essere e non è stato (come “And Nothing Is Forever”), con le immancabili intro interminabili che non vorresti che finissero, con le notine di pianoforte che fanno immaginare tutto, con la voce di Robert Smith che si eleva emozionale nell’aria.
Terza annotazione: la parte mediana particolarmente dark è stato il regalo più prezioso della serata. Ad un certo punto un’orda buia e tormentata si è abbattuta sull’Unipol Arena e si faceva fatica ad uscirne. Chiunque abbia passato l’adolescenza fantasticando all’interno di quell’ambiente ostico e complicato che sono i suoni degli album dei Cure fino a “Pornography” è tornato a fare ieri sera un viaggio iniziatico dentro di sé, si sono ricreate nell’animo le stesse paure, le medesime incertezze, ma allo stesso tempo la consapevolezza era quella che si poteva (ri)uscire dal quel luogo angusto dell’anima (di “disagio psichico”, si direbbe oggi) come poi ha fatto Robert con “Japanese Whispers” e tutta la produzione successiva. Rimanere lì avrebbe voluto dire soccombere, però attraversare brani come “At Night”, “Cold”, “Primary” è stato un ributtarsi a capofitto in quella terra di mezzo in cui forse tutti sono passati almeno una volta nella vita. Con un regalo speciale: non ricordo l’ultima volta che ho sentito “Faith” dal vivo ma sicuramente è stato molto tempo fa (pare che fosse dal 2011 che non la facessero) ed è stata meravigliosa: essenziale, senza arrangiamenti ulteriori inutili, scheletrica come l’originale se non di più. Uno splendore di disperazione.
“Kiss your eyes and finish your life”
La chiusura è stata come al solito giocosa, i Cure sanno che devono far uscire il pubblico dalla sala contento e perciò gli danno in pasto quello che vogliono: i classici, quelli allegri. E lì sono luci e salti, gioia e contentezza, è giusto anche divertirsi. Non lo fanno perché devono, sono felici nel suonare i loro pezzi più conosciuti perché hanno capito che i Cure sono anche quelli: sono quelli disperati e quelli festosi, sono quelli per fans oscuri e anche quelli per chi ascolta solo “Friday I’m In Love” su certe radio che fanno sentire sempre i soliti brani banalizzandone il contenuto. I Cure sono tutto questo.
Ma soprattutto, uscendo, mi è soggiunto un pensiero che è il corollario di quello che si diceva all’inizio, del fatto che i Cure ci sono sempre stati nella mia vita, dalla mia adolescenza a quando non ci sono più stati i miei genitori, all’università e quando ci sono stati i figli, nelle giornate noiose e in quelle in cui si sarebbe spaccato il mondo. I Cure c’erano sempre, e c’ero io con loro.
I Cure sono io, io sono i Cure.
(Paolo Bardelli)
1. Alone
2. Pictures of You
3. A Night Like This
4. Lovesong
5. And Nothing Is Forever
6. At Night
7. A Strange Day
8. The Hanging Garden
9. The Last Day of Summer
10. Cold
11. Burn
12. Push
13. Play for Today
14. Primary
15. From the Edge of the Deep Green Sea
16. Endsong
Encore:
17. I Can Never Say Goodbye
18. Faith
19. A Forest
Encore 2:
20. Lullaby
21. The Walk
22. Friday I’m in Love
23. Close to Me
24. In Between Days
25. Just Like Heaven
26. Boys Don’t Cry
foto sul fb ufficiale dell’Unipol Arena