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Nella settimana in cui il cantautore Premio Nobel per la Letteratura ha compiuto 82 anni abbiamo intervistato un suo fan di lunghissima data che dal 1978 a oggi ha visto centinaia di suoi show e che la Columbia ha contattato perché alcune sue foto venissero utilizzate all’interno di pubblicazioni ufficiali di Bob Dylan. Dalla difficoltà di immortalare il proprio idolo all’emozione infinita di riuscire a eternare un momento particolare e indimenticabile di uno show, la chiacchierata con Andrea Orlandi è stata appassionante e variegata. Si è parlato di tantissimi argomenti, anche approfittando del fatto che a inizio luglio il cantautore sarà in Italia per cinque concerti.
Andrea Orlandi è di Castelfranco Veneto e sin dalla terza media, nel ’69-’70, grazie all’ascolto a casa dei suoi cugini qualche anno più grandi di lui, rimase subito affascinato da Bob Dylan: fu amore istantaneo appena sentita la sua voce cartavetrata di “ventunenne anziano”. Il tutto iniziò al risveglio da una terribile emicrania, quando sentì “Girl from the North Country”, pubblicata nel ’63. Quella voce e inflessione gli lasciarono un segno indelebile e da allora non ha mai smesso di ascoltare la sua musica, prima acquistando in uscita diretta Self Portrait (1970) e poi andando a ritroso, scoprendo la miniera d’oro degli album storici di Dylan degli anni ’60.
Fotografi Bob Dylan dal 1978 e da allora hai partecipato a centinaia e centinaia di suoi show. I tuoi scatti mozzafiato sono conosciuti dai dylaniani di tutto il mondo e non solo: ci racconti com’è nata la tua passione per Bob e come mai hai deciso che fotografarlo fosse per te così importante?
Il mio incontro con le canzoni di Bob è quello che ti ho descritto poco sopra. L’iniziale passione con la scoperta degli album a ritroso si è poi sviluppata con l’acquisto degli album nuovi che Bob pubblicava negli anni ’70: il primo in tempo reale fu uno shock, Self Portrait; pochi anni dopo, poi, ci fu il clamoroso Blood on the Tracks, uscito all’inizio del ’75, che ha accompagnato infinite struggenti serate e notti dell’inverno ’76.
Street Legal (1978) è stato l’album che ha definitivamente tracciato un solco nella mia anima e che, visto l’inaspettato annuncio del Tour Europeo del ’78, mi ha imposto di far tutto il possibile per vederlo in concerto. E il 1° luglio 1978 ci sono riuscito, allo Zeppelinfeld di Norimberga, in mezzo ad altri 100mila.
Già da molti anni Bob Dylan ha vietato fotografie e riprese video nei suoi show, e anche le fotocamere e le videocamere, se notate, vengono subito “bloccate” dalla security delle venues. Dal 2021, inoltre, per rendere il divieto ancor più stringente, Dylan obbliga gli spettatori a rinchiudere il loro smartphone in un’apposita borsetta magnetica, servizio ideato e offerto da un’azienda cui non soltanto Bob si appoggia. Per quale motivo pensi sia arrivato a una decisione così estrema?
È sempre difficile e presuntuoso pensare di riuscire a entrare nei pensieri e motivi che determinano le decisioni di Dylan, e ciò vale anche per questo. La mia idea, comunque, è che:
– abbia la più totale avversione a perdere il controllo della sua immagine e vedersi utilizzato con foto che possono non piacergli, in contesti pubblici che gli sfuggono. Penso che la feroce avversione alle foto “rubate” in concerto l’abbia definitivamente consolidata dopo il tour autunnale del 1987 con Tom Petty e gli Heartbreakers, qui in Europa. Circolarono pubblicamente, in riviste, libri e varie pubblicazioni, alcune foto con immagini sue colte in certe espressioni non proprio edificanti, in un momento particolare della sua vita, come persona e come artista, alla ricerca di sé stesso e del significato delle sue canzoni, che non riconosceva più: fu il vero inizio di quel suo atteggiamento in concerto per cui è ancora famoso, accompagnato dallo stravolgimento nel modo di cantare i suoi pezzi e negli arrangiamenti utilizzati, dovuto probabilmente alla prima esperienza live appena vissuta con i Grateful Dead.
– si sia realmente scocciato dall’invasione di disturbo ormai irriguardoso nei confronti dell’artista, e soprattutto del pubblico che vuole ascoltare e vedere, esploso negli ultimi anni degli smartphone alzati sopra le teste con schermi luccicanti e suoni vari: non è l’unico né il primo, infatti ad aver adottato questa regola per entrare ad un concerto.
In virtù di questa cosa, come pensi di riuscire a fotografare Bob Dylan nei prossimi concerti e come sei riuscito a farlo negli ultimi anni nonostante i divieti e i tanti ostacoli?
Bella domanda. Premetto che non ritengo di poter essere messo, io come alcuni altri, sullo stesso piano di chi usa indiscriminatamente gli smartphones e varie macchinette per scattar foto e far video, con modi intrusivi e fastidiosi verso il pubblico e l’artista, con luci accecanti, flash odiosi e inutili, ostruendo fisicamente la visibilità di chi vuole gustarsi e vedere bene in pace il concerto dell’artista per cui ha pagato il biglietto. Chi come me cerca di far foto di qualità, come valida traccia storica della storia live di un artista, cerca di essere invisibile ai più, soprattutto alla security locale e non. Evitando il rischio sempre in agguato di essere comunque scoperto e, ultimamente, con la conseguenza di essere accompagnato fuori senza permesso di rientrare pur senza la fotocamera, dopo essermi stato richiesto di consegnare, anni fa, il rullino o – in era digitale – di cancellare la scheda di memoria.
L’ingresso è la parte più stressante per chi vuole cercare di far foto di qualità. L’attrezzatura, per forza di cose, non è di dimensioni facilmente gestibili per essere nascosta ai controlli. Che magari, in alcune occasioni, arriva ad utilizzare il sistema check-in degli aeroporti: passaggio su strutture con metal detectors e controlli personali manuali in ogni dove con metal detectors e palpeggi vari. Un incubo: si fa quello che si può e si può facilmente immaginare. Una volta entrati, la discrezione e il non arrecar disturbo di ostruzione visiva e di rumore ad alcuno è la regola fondamentale.
Quali sono i segreti dietro i tuoi scatti migliori? Quali precise tecniche adotti per riuscire a individuare e consegnare ai posteri momenti indimenticabili dei concerti di Bob Dylan?
Non ho alcun segreto. Il più è dovuto all’ammirazione sconfinata per il soggetto ripreso, la non comune ovvia conoscenza dopo oltre 50 anni di ascolto di ogni sua registrazione audio e video e la partecipazione a tutti i tour, per almeno una data o due, che ha fatto dal 1978 ad oggi. Per l’aspetto tecnico è l’usare solo reflex di alta qualità, se proprio non costretti alle compatte di nicchia in situazioni limite, e conoscere i rudimenti dell’esposizione manuale: diaframma, tempo e ISO. Per l’aspetto scelta posa, è ancora tutto dovuto all’esperienza nel saper cogliere i momenti più significativi, luce giusta, taglio inquadratura.
A volte però le migliori intenzioni dettate da tutta questa esperienza vengono sprecate per la materiale impossibilità di scegliere sempre quello che si vuole: gente attorno a te che si infastidisce e richiama l’attenzione della security, security del posto, security sua personale, crew ai lati del palco che pure mira a chi cerca di fotografare e segnala subito alla security. Come detto: un incubo. Occorre tanta, ma tanta pazienza, calma; bisogna trattenersi dal semplice istinto di scattare sempre e comunque nei momenti migliori. Non si può scattare per tutti i momenti favorevoli che si presentano da un punto di vista fotografico. Occorre scegliere il compromesso tra i momenti migliori e il campo libero sul fronte controlli. Gli scatti migliori, come è facile capire, arrivano quando le due cose coincidono in modo astrale. A volte ci sono, a volte mai per tutto lo show. Frustrazioni da appassionato fotografo e appassionato dell’artista.
A questo punto è impossibile non chiederti quali ritieni siano i tuoi scatti migliori e quelli ai quali sei più legato.
Tendo a preferire le mie foto che colgono una situazione particolare, un momento unico, per atteggiamento dell’artista, per situazione sul palco, anche se non con la perfezione tecnica. Tra una foto perfetta ma in un momento qualunque o con una espressione non felice o non particolarmente interessante preferisco di gran lunga uno scatto tecnicamente imperfetto, ma che coglie appunto il soggetto con una espressione interessante, a volte irripetibile, e se ciò avviene con la miglior luce di scena queste per me sono le foto migliori.
Tra queste c’è quella in cui lui entra inaspettato sulla scena dello show di Van Morrison che apriva la serata a Milano 1991, con l’armonica, e che soffia sull’armonica guardandolo fisso in viso negli occhi; con Patti Smith, mentre cantano “Dark Eyes” a Philadelphia nel dicembre 1995, nell’unico duetto della serata, grazie all’invito di Dylan, in concerti che vedevano il ritorno di Patti sulla scena; ma pure alcune in cui non trattiene un sorriso spontaneo, causato forse da momenti di particolare riuscita nel suono o nell’atmosfera o per la reazione del pubblico; e anche quelli in cui suona la chitarra, visto che ormai dai primi anni 2000 è sempre più raro se non impossibile vederlo imbracciarla. Sicuramente, poi, ci sono i miei scatti che ha scelto lui stesso per un suo video e poi per l’album Rough and Rowdy Ways e ancora altre per il suo ultimo Bootleg Series ufficiale.
Cosa hai provato quando sei stato contattato dalla casa discografica di Bob in merito all’utilizzo di una tua foto nel booklet dell’album Rough and Rowdy Ways di Bob Dylan, l’ultimo capolavoro discografico in studio del cantautore, uscito nel giugno 2020? Peraltro ciò non è stato un caso isolato: se non erro una situazione simile si è ripresentata in merito al box set Bootleg Series Vol. 17 uscito all’inizio di quest’anno…
Un enorme orgoglio e soddisfazione: primo perché praticamente non aveva mai utilizzato prima – per album ufficiali – foto fatte da fans, “rubate” ai suoi concerti, dove vige il divieto assoluto di entrare con la fotocamera e da due anni anche solo con lo smartphone; poi perché è accaduto in assoluta mancanza di una qualsiasi mia pressione o semplice tentativo di contattare il suo ufficio per proporre i miei scatti per un qualsiasi uso ne volessero fare. Nel 2020, ad aprile, è accaduto nella maniera più inattesa e inconsapevole. A letto, sveglio all’alba in pieno lockdown, aperto il cellulare mi è balzato agli occhi un video caricato su YouTube con l’immagine fissa di una mia foto a lui fatta a Salisburgo… Per un non breve momento ho subito pensato ad uno scherzo fattomi dai molti amici con cui condivido questa passione musicale, ma l’ascolto mi ha fatto capire che era una sua nuova canzone, “I Contain Multitudes”, mai sentita prima, presentata quella notte in anteprima assoluta, come aveva fatto poco tempo prima con “Murder Most Foul”. E alla fine ho letto i titoli di coda, con il marchio Sony Music. Beh, è stato uno dei miei migliori risvegli di sempre.
La soddisfazione e l’orgoglio poi sono aumentati quando capii che non era una scelta casuale per il video – immagine fissa per tutta la canzone – ma ribadita usando lo stesso scatto come interno di copertina dell’album poi uscito a giugno, e con l’aver potuto apprendere che la scelta era stata sua. Scrissi al legale che lo rappresenta per far presente l’autore della foto, legale dal quale ho avuto cortese riscontro immediato dopo poche ore, con offerta di crediti di copyright, remunerati con contratto ufficiale e citazione online nel suo sito ufficiale. La parte migliore di come si è conclusa la trattativa non è il compenso ricevuto ma l’aver firmato un contratto con la Sony Music avente a oggetto “Bob Dylan/Andrea Orlandi Copyright Agreement”.
Fosse pure finita qui, ciò avrebbe ampiamente ricompensato decenni di passione di sforzi, fatiche, spese e stress inenarrabili. Il contratto è sulla mia parete in Studio. Ma a marzo dello scorso anno, dal nulla, mi hanno ricontattato per chiedermi di inviargli una manciata di scatti di un particolare periodo per uno scopo preciso. Qui il mio ego ha avuto una spinta via via maggiore, dato che, dopo pochi scatti inviati, già mi avevano risposto che ne vedevano il possibile uso ufficiale e chiedevano il mio consenso; ma, con la presunzione di conoscere a fondo il tema, e in particolare illudendomi di conoscere le sue preferenze per la sua immagine, ho avuto un flash improvviso su uno scatto che non gli avevo mandato, e che a me piaceva molto, fatto nel 1999 a Newark.
Non a caso, la foto da me scelta è in tema con le preferenze che prima illustravo: pur se non di perfezione tecnica, per l’unicità dell’espressione e del momento. E, quando gliela ho mandata, ho spiegato tutto questo, quasi a scusarmi della scelta non proprio felice per la qualità tecnica, cercando però di motivarla bene per il contenuto che a mio avviso rappresenta molto bene un classico momento di empatia sua con chi lo sta ascoltando. L’ego si è definitivamente gonfiato quasi a scoppiare quando mi risposero che, sì, avevano scelto proprio questa mia proposta, pur già essendosi dichiarati soddisfatti con le prime che avevo inviato.
Ero a Parigi lo scorso ottobre, al primo dei tre show di Bob al Grand Rex. Anche tu hai avuto modo di vedere più volte il cantautore in concerto dal 2021 a oggi, in quella che è una nuova fase del suo tour senza fine, ora ribattezzato Rough and Rowdy Ways Tour. Sappiamo, insomma, cosa aspettarci da Bob quando arriverà in Italia tra qualche mese. Pensi ci saranno sorprese nella setlist e negli arrangiamenti? Come descriveresti gli show che Bob sta tenendo ultimamente e quali ritieni siano i momenti più emozionanti e travolgenti di questi ultimi mesi e anni di tournée?
Non credo e non mi aspetto particolari sorprese, se non forse qualche gemma di possibile diversità di sera in sera in una canzone nella scaletta, quella posizione che in Giappone ha riservato per le covers inusuali.
Viste le recenti scalette dei concerti che nella prima parte dell’anno Bob ha tenuto in Giappone, visti i membri della band, alcuni dei quali sono da poco tempo con il cantautore, e considerati gli arrangiamenti dei pezzi eseguiti, quali ritieni siano i momenti più eccezionali ed emozionanti di questi recenti mesi e anni di tournée?
Per me, sin dal 2019, e in particolare con la band che ha avuto da ottobre a dicembre 2019, il livello delle sue perfomances in concerto si sono alzate moltissimo. Sia per gli arrangiamenti e il suono che per il suo canto. La voce da allora è risultata nettamente migliore dei precedenti anni, e in particolare degli anni tra il 2005 e il 2010.
La band dell’autunno 2019 aveva un suono micidiale. Il nuovo chitarrista, Bob Britt, dialogava splendidamente con Sexton. E il batterista sapeva come alternare ritmi incalzanti a passaggi soffusi. Probabilmente di quel periodo i momenti migliori erano la “Gotta Serve Somebody” tiratissima con gli start and stop, la “Girl from the North Country” con Bob al piano, la “When I Paint My Masterpiece” in stile The Band e ancora il finale con due canzoni elettriche con lui alla chitarra nel mezzo della scena in piedi. Ho ricordi meravigliosi dei concerti autunnali 2019.
L’anno scorso, con un diverso chitarrista rispetto a Sexton – Doug Lancio – e un batterista ancora differente rispetto all’ottimo Matt Chamberlain, dopo una prima delusione per la mancanza dei sostituiti, che ritenevo fondamentali, ho iniziato ad apprezzare in particolare lo stile decisamente singolare del batterista, in grado di dare una particolare attenzione alle atmosfere create dal piano e dal canto di Bob, attenzione che forse mai prima avevo sentito da altri batteristi. Nei concerti dell’autunno 2022 mi son piaciute in particolare “I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You”, “Key West”, ancora “Gotta Serve Somebody”, e su tutte la meravigliosa e sofferta versione di “Every Grain of Sand”, che conclude i suoi show da molto tempo.