Share This Article
Bruno Dorella è uno di quei nomi misconosciuti alle grandi platee fagocitatrici di musica dietro le quali in realtà si nascondono elementi fondamentali per la scena musicale italiana, piccoli geni costretti (?) a lavorare nell’ombra. Verrebbe da tirar fuori anche il buon Fabio Magistrali, tanto per restare all’interno della scena milanese. Ma torniamo a occuparci di Bruno Dorella e della sua enunciata importanza: Bruno, oltre ai qui recensiti Ovo, suona nei Ronin, nei Bachi di Pietra (insieme a Giampebbe Succi esule dall’avventura dei Madrigali Magri) ed è stato batterista dei Wolfango, la più splendida meteora degli ultimi anni.
Basterebbe probabilmente anche solo questo breve cenno curriculare per inserire Dorella nell’Olimpo di chi merita una menzione d’onore, ma non è finita: è anche a capo della Bar la Muerte per la quale ha prodotto un esordiente Bugo, le capitoline Motorama, i R.U.N.I. (in collaborazione con la Wallace di Mirko Spino, l’altro polmone verde della musica meneghina) e le Allun. E proprio con Stefania Pedretti delle Allun Bruno divide il timone degli Ovo, che con “Cicatrici” diventano meritoriamente e con prepotenza una delle band imprescindibili della musica italiana contemporanea.
“Candida”, con il suo carattere ondivago e sottilmente ossessionante è un’intro perfetta, pronta a svanire nelle accelerazioni e nel pestare convulso di “La peste”, memoria belluina del punk. La musica degli Ovo propone una serie infinita di suture e lacerazioni – come nella splendida apertura e clausura continua di “Ombra nell’ombra”, ad esempio, o nella quasi programmatica “Spezzata”), ma più che di fronte a un’operazione chirurgica, asettica e impeccabile, si ha l’impressione di assistere alla brutalità del Leatherface di “Non aprite quella porta”.
Dopotutto anche la grafica rimanda direttamente a un modus operandi strettamente imparentato con il grottesco e il deforme. Il punk – o meglio la wave in generale – è il passepartout utilizzato da Dorella e Pedretti per gettarsi a capofitto nei meandri della sperimentazione; in quest’ottica acquista senso la linea parentale con i CCCP riscontrata da molti critici nostrani. Anche se qui ci si muove su un terreno diverso, dominato dalle percussioni e interessato a una mostra delle atrocità fisica e non mentale. È il corpo stesso a essere costretto a deformazioni – l’onomatopeico verbalismo di “L’anno del cane” -, dilatazioni e giunture posticce, e la descrizione del mondo si trasforma presto in puro iperrealismo, nel quale rimangono frastuoni e urla. E anche quando la calma pacificante di un arpeggio si fa strada nella conclusiva “Signora bella con cane gentile” l’immagine bucolica è destinata a una precoce dissolvenza.
Un album divertente e straziante, carico di quella risata che ti lacera e che ti lascia strappato. Pieno di cicatrici.