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Anche per l’artista americano siamo già al bilancio decennale. Dobbiamo infatti tornare all’epocale 1989 per trovare l’esordio (in grande stile) del compositore e polistrumentista di colore. E già, “Let love rule” era (è) un lavoro notevolissimo, pieno di umori, denso, ispirato. Spiace parlare usando l’imperfetto, ma purtroppo Mr. Kravitz sembra avere perso contatto con la sua personale Musa Ispiratrice. A cominciare dall’ultimo, deludente album da studio (“5”), il suono si è fatto improvvisamente piatto, un elettro-rock-soul di marca radiofonica senza un briciolo di passione, molto vicino a quella sbobba informe che ci viene spacciata come “soul” e che ovviamente domina le classifiche. Caro Lenny, ne avevamo già abbastanza delle Cleopatra e di Babyface…Guarda caso, “5” è stato l’album che ha consacrato Kravitz tra i bestsellers. Lui, prendendoci gusto, ha pensato bene di tenere caldo il suo posticino in classifica con l’orrenda cover di “American woman” e l’ultima “Again”, insipida e rivoltante come un rancio in trincea.
Per fortuna, essendo pur sempre un greatest, troviamo le care vecchie composizioni, che tanto ci hanno fatto apprezzare questo musicista che sembrava essere riuscito a coniugare due dei più grandi Verbi della storia del rock: John Lennon e Jimi Hendrix. “Are you gonna go my way”, “Mr.Cab driver”, “Always on the run”, “Let love rule” sono canzoni stupende, intense. Le troverete nei primi tre albums di Kravitz, insieme ad altri eccellenti pezzi. Questo “Greatest hits”, se potete, evitatelo. “Again” o “Black velveteen” potrebbero essere letali per chiunque abbia a cuore le sorti della buona musica.