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Qualcuno deve aver detto ai musicisti italiani che non è più tempo di vergognarsi della tradizione, di cercare di nascondere e di sporcare le melodie: nell’arco di un mese mi giungono alle orecchie prima il debutto dei Non Voglio Che Clara, fotografie in bianco e nero di una malinconica Italia anni ’60; subito dopo questo album voluto da due musicisti, Giaccone e Congiu, provenienti da una Torino più nascosta (quella dei Franti e dei Kina – band in cui Giaccone ha militato – ma anche quella di Lalli, dei Perturbazione e dei Truzzi Broders) ma ricca di tesori, che va ad omaggiare direttamente la nostra canzone d’autore, mischiano alto e basso, intimismo e sociale.
Anche se è diventata una pratica comune, non è facile fare un disco di cover: fedeltà o stravolgimento dei brani? “Una canzone senza finale” si mantiene in gran parte vicina alle atmosfere originali, soprattutto per quelli che ormai sono diventati i nostri standard: “Vedrai vedrai” di Tenco è resa preziosa da una chitarra acustica elegante ma viene un po’ appesantita dagli archi, mentre “Lindbergh” (di Fossati) vola alta attorno al pianoforte e al clarinetto.
Dove Giaccone e Congiu osano di più è con brani meno noti, come “La corda di vetro” dei Perturbazione (un vero gioiello da riscoprire, forse il punto più alto del disco) o “La mia faccia” di Lalli, che viene spogliata di tutta la sua tensione elettrica e avviluppata dal contrabbasso in un singhiozzo jazzato; le atmosfere delicate si accendono in pochi momenti, come nella imprevista “T’ho visto in piazza” dei Truzzi Broders, o in una “Vedi” fortemente ritmata.
Ciò che colpisce maggiormente del disco è la vocalità di Stefano Giaccone, capace di piegarsi alle esigenze delle canzoni, fino ad assomigliare in ogni canzone ai suoi interpreti originali: un’immedesimazione nelle trame dei brani che ha del sorprendente.
Ci sono anche due canzoni autografe, che rispecchiano i poli opposti del disco: mentre Congiu crea un importante spaccato di alienazione quotidiana tra i clangori industriali e il recitato di “Fabbrica”, Giaccone sceglie una via più dolce, intima, con la splendida melodia elettroacustica di “Come mi amerai”.
Un disco di non facile collocazione, all’interno del nostro panorama indipendente: sembra quasi che omaggiare le proprie radici sia un rischio, e non un’operazione necessaria. È da questa tradizione che vogliono ripartire Stefano Giaccone e Mario Congiu, e il loro sguardo al passato non può essere che colmo di soddisfazione: la loro ma anche la nostra, per aver ricordato.