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I Woods sono una delle band più prolifiche e autentiche della scena indipendente americana. Sono passati dieci anni, da quando, nel 2006, il fondatore del progetto Jeremy Earl ha fondato a Brooklyn la band e la sua label Woodsist che ha lanciato tanti nomi emergenti poi assurti a fenomeni indie planetari, dai Real Estate (e filiazioni) ai White Fence, passando per Sun Araw, Kurt Vile, Kevin Morby (e i suoi The Babies) e gli stessi Thee Oh Sees. Nessuna pretesa di stravolgere gli scenari della musica contemporanea, tanta voglia di mantenersi sul solco della tradizione Americana con un livello di songwriting fresco, intatto, autentico.
Sono passati due anni da “With Light And With Love” che faceva seguito all’ennesimo capolavoro “Bend Beyond” del 2012 e aveva inserito dei momenti leggermente più pop tra le classiche suite psichedeliche figlie dei Sixties che contraddistinguono i Woods. Una band d’altri tempi che fa della sua dimensione squisitamente indipendente e Do It Yourself la sua cifra stilistica. In questo nuovo album, non manca, l’ispirazione. “City Sun Eater In The River Of Light”, nono album della loro carriera (il secondo nato in un vero e proprio studio, il Thump di Brooklyn, a Greenpoint), è un disco tipicamente Woods, dove peculiare il falsetto di Earl si incastra a meraviglia nelle intriganti trame chitarristiche imbastite da lui e dal compagno di viaggio Jarvis Taveniere, bassista, polistrumentista e onnipresente collaboratore di decine di band da Brooklyn alla West Coast statunitense. Al loro fianco, a costruire la base ritmico quello che è diventato ormai il terzo Woods, Aaron Neveu, il batterista dei Quilt, John Andrews, qui tastierista e seconda voce, il chitarrista Jon Catfish Delorne, collaboratore e turnista di nomi che vanno dagli Psychic TV a Shilpa Ray. I fiati di Alec Spiegelman e Cole Karmen-Green, accompagnano i brani più inediti e intriganti di quarantadue minuti che oscillano tra folk-rock, pop psichedelico ed escursioni caraibiche, scorci reggae, pulsioni afro-beat e una conclamata influenza nel jazz tradizionale etiope .
Si coglie subito questa nuova essenza esotica nella traccia tex-mex d’apertura, “Sun City Creeps”, nella ballad retrò “The Take” e poi nell’intensa “Cant See At All”. Una vena che rende la tribale “I See In The Dark” probabilmente il brano clou della collezione, con un basso incessante e kraut e visionarie digressioni psichedeliche molto care al loro repertorio. “The Other Side” è un altro compromesso perfetto tra la natura tradizionale dei Woods e questi arrangiamenti vagamente calipso che danno un volto nuovo alla loro proposta musicale. Dal Centro America si passa attraverso visioni western “Hang It On Your Wall” e poi si torna nei loft di Greenpoint molto volentieri in “Creature Comfort”, nel folk-rock d’annata da eredi di Neil Young e fratellastri dei Wilco, in “Morning Light”. Così come in “Politics Of Free” che guarda indietro e a quel suono Woods che li ha resi ormai riconoscibili dopo poche note.
Ancora una volta, i Woods sono una certezza per chi non si vergogna di ascoltare della buona musica suonata, ancora oggi, con le chitarre: un tuffo nel passato sempre rigenerante e terapeutico.
79/100