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Ogni tanto, durante i vari riordinamenti che noi appassionati nerd della situazione mettiamo in atto, capita di ritrovarsi fra le mani quei dischi che un tempo abbiamo consumato in preda alla scoperta dei “grandi classici” una volta intoccabili (ora fortunatamente niente è più intoccabile). La stessa cosa succede scontrandosi con i Wolfmother.
Ascoltando questo esordio sembra che non abbiano fatto altro per tutta la vita se non ascoltare e suonare e ascoltare e suonare quei dischi fino alla nausea, assimilando lo spirito dietro a quei contenitori di riff assassini chiamati “Led Zeppelin II” o “Paranoid” e facendoli propri con una naturalezza sorprendente. Perché in questo omonimo disco, sebbene si tratti di pura necrofilia, non c’è niente che risulti forzato. Anzi, proprio il contrario. I Wolfmother sono un paradosso, così come sono stati i White Stripes (praticamente omaggiati – o forse si tratta semplicemente delle stesse influenze? – in “Apple Tree”): sono la musica datata per eccellenza, qualcosa che i nostri padri potrebbero come al solito venire a sbuffarci in faccia “Eh, ma ai miei tempi questo si faceva già” e altre noiose espressioni da matusalemme.
Ma anche se oggettivamente di rock da matusalemme si tratta, che male c’è se suonano freschi e divertenti come molti gruppetti indienoia usciti l’altro ieri non riusciranno mai a fare? Quindi… dove sta il segreto? Io non lo so. Quello che so è che fin dalle prime note i tre ragazzi in questione dimostrano di saper prendere in mano gli affezionati testicoli ed aggredirci con una sequela di ritmiche incalzanti e chitarrone pese. Anche perché rendiamoci conto che questo disco inizia con una canzone chiamata “Colossal”, che oltretutto è puro Black Sabbath. A questo aggiungiamo un nome come Wolfmother e una copertina oscena come poche: elementi che mettono già in chiaro una percentuale di tamarraggine non indifferente, al punto che senza ascoltare il disco potremmo avere già tutti gli ingredienti per capirlo.
Fra i vari riffoni killer (“Dimension”, “Woman”, “Joker & The Thief”, “Pyramid”, e sono solo alcuni), c’è tempo anche per degli episodi più pensati (“Tales From The Forest Of Gnomes”) che completano alla perfezione il quadro di quello che è un vero e proprio Bignami degli anni 70, rappresentato quasi alla perfezione da un pezzo come “Mind’s Eye”. Sono canzoni che abbiamo ascoltato un milione di volte. Ma a chi può interessare quando si sente ancora l’entusiasmo e la voglia di spaccare tutto e, senza alcuna vergogna da parte nostra, il desiderio di una sana testata contro il bordo del palco come ai primi incendiari concerti dei Led Zeppelin?