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Alla Sub Pop hanno un certo fiuto nell’acciuffare per la collottola (e mettere puntualmente sotto contratto) i gruppi nuovi di talento, questo è certo. Di recente hanno fatto uscire, tanto per raccontarne una interessante, l’esordio “Nouns” dei losangelini No Age e, manco a farlo apposta, il suddetto album ha conquistato tutti gli operatori del settore. A ragione, bisognerebbe subito aggiungere, visto che il giovane duo in questione è riuscito nell’ardua impresa di far suonare (credibilmente) hardcore i My Bloody Valentine, rendendo veloce e scattante la musica più lenta e rattrappita che mente umana abbia mai concepito. Bradipi che corrono come antilopi schiumanti. Provateci voi, se vi riesce. E a pochi mesi da siffatte vicende la Sub Pop ci riprova con gli ancor più giovani Fleet Foxes e fa centro un’altra volta.
Ci trasferiamo per l’occasione nella California psichedelica (il gruppo però è di Seattle come la label) dei dorati e irripetibili Sessanta, nel cuore floreale dell’Estate dell’Amore più lunga e calda della storia dell’umanità, quando l’immaginazione (e il sesso libero) erano al potere davvero, mica per scherzo. Questo sono i Fleet Foxes: un affascinate paradosso temporale, più veri del vero, più intrinsecamente acidi e sognanti degli stessi Grateful Dead al loro massimo splendore sciamanico, più freak dei freak. E per dimostrarlo ci regalano un disco da ascoltare con le mani incrociate dietro la testa e il naso all’insù, che al posto di pareti e soffitti in cartongesso inizia a seminare alberi sempre più alti e slanciati in un’accecante vertigine di trasparenza metafisica. E lo fa attraverso una collezione a dir poco sontuosa di canzoni (sentite “Heard Them Starring”o “You Protector” e poi parliamone, se volete) che si srotola nell’etere vibrante come un piccolo giardino botanico tascabile, anzi come una foresta di sequoie a forma di tappetino mentale ripiegabile nei pochi centimetri plastificati dell’Ipod che vi trilla nel taschino. Canzoni giovani e vecchie come il cosmo, avviluppate nella lanugine dorata di barbe centenarie e nel mistero di tuniche ricamate da invasato sacerdote dei boschi. Devendra Banhart (con Collettivo Animale al seguito) apprezzerebbe senz’altro. Canzoni-(mappa)mondo, verrebbe quasi da dire, canzoni da ascoltare come visitando un continente non ancora scoperto, lasciandosi trasportare dallo stupore infantile di una sorpresa sempre nuova .
Una volta assaggiati, non potrete farne a meno, questo è sicuro. Se non siete mai stati nell’isola di Wight, qui vi si offre la possibilità di staccare un biglietto (rigorosamente di sola andata) per un viaggio telepatico senza fine. Lasciatevi sognare in pace.