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Il vero artista si muove, cambia, si rimette in gioco. Proprio come Apparat che, non domo dell’ottimo dream-pop con striature elettroniche del fascinoso “Walls” (2007), ha preferito rifare un passo indietro verso i suoni ancora più sintetici e i campioni mettendosi in società con Modeselektor. Risultato? Un “Walls” con i suoni più vicini all’attualità, con linfa presa dalla dubstep e dalla minimal techno, in un’apoteosi di immaginifici labirinti, di aperture crescenti come lune piene, di riff malefici lanciati verso la pista con nonchalance e tanta cultura musicale. Sarà un caso, ma se una canzone come “Arcadia” in “Walls” poteva ricordare i Radiohead, Apparat si è apparentato con quello che Thom Yorke sempre definito come uno dei suoi gruppi preferiti.
Del resto c’è tutta Berlino qui dentro: il laboratorio Berlino, la città aperta Berlino, crocicchio di idee ovvero di dj che analizzano, ascoltano, rimescolano ma soprattutto sperimentano.
L’iniziale “A New Error” vuole prendere autorevolezza direttamente dal krautrock (avere i Kraftwerk nel taschino può sempre servire…), “Slow Match” riprende il filo del triphop unendolo con la dubstep e tracciando una linea fatta di bassi grassi e pieni ed orizzonti synth oscuri su cui si innesta la voce di Paul St. Hilaire che pare provenire da una Jamaica dell’oltretomba, la ragga-electro di “Sick With It” porta invece la sabbia caraibica lungo i canali della Spree.
Su tutti, però, ci sono pezzi splendidi come il buio e malinconico “Rusty Nails”, da pelle d’oca, e il claustrofobico “Porch#1”, in cui riemerge con prepotenza lo stile inconfondibile di Apparat ed i suoi avvicinamenti verso ciò che elettronica non è. Un’elettronica-non elettronica, un umano-non umano.
Il futuro passa da Berlino, di questo ci si è accorti da tempo e ce se ne accorge sempre di più quando si ascoltano dischi come questi.