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“They hear and play as one”. Così si potrebbe dire, ispirandosi a un verso del penultimo brano di questo disco, del gruppo variabile di musicisti riuniti sotto il nome Mandara, il progetto musicale e culturale guidato con passione ormai da più di un decennio da Gennaro De Rosa. A sei anni di distanza da “Alatul” esce ora il terzo album di questa che non è una band, bensì la musica stessa che produce, con una identità quasi totale fra musica e musicisti. Insomma, Mandara è lo stile Mandara: nomen/omen, come pare suggerire anche l’omonimia del titolo, a simboleggiare una sicurezza e una maturità artistica che suonano già classiche.
E classico è dunque “Mandara”, un disco meditato e riflessivo, omogeneo e regolare, frutto delle varie esperienze vissute in questi ultimi anni da De Rosa: con il Parto Delle Nuvole Pesanti, con il progetto di Pentole & Computer, con la musica per il teatro, con i 99 Posse e altro. Se “Alatul” procedeva “diritto fino alla fine”, più giovanilmente perentorio, irruente e dionisiaco, più sperimentale, psichedelico e “innaturale” nelle sonorità, questo è più espansivo e poetico, caldo e familiare. Decisamente più femminile, grazie alle voci di Francesca Calabrò e Amy Denio, più cantato, meno elettronico. Il che non significa che ora manchi totalmente l’elettronica o che “Alatul” fosse un semplice disco di kraut-rock fuori tempo massimo, ma solo che se l’etno-elettronica di De Rosa è sempre stata molto solare e temperata, in quest’ultima produzione è ancora più mediterranea, recuperando persino qualche originale tratto cantautorale sapientemente filtrato.
Per semplificare: anziché partire dal migliore rock teutonico per arrivare ad un etnico “sui generis”, qui si è sperimentato il percorso inverso, rimescolando le carte in uno stile forse ancora più personale e indipendente dai modelli. Il risultato è ugualmente affascinante e originale, ma piuttosto differente: non si tratta di una semplice inversione degli addendi. Quel che si perde in complessità strumentale, si recupera in comunicativa e profondità meditativa. Meno synth e tastiere, quasi sempre in rifinitura. Fanno un passo indietro gli archi, più misteriosi, e avanzano i fiati, più amichevoli: sassofoni, clarinetto, tromba, trombone, elemento portante di gran parte dei pezzi, che si tratti di esplicare la melodia o di accompagnare. Fa eccezione soprattutto la conclusiva “Hassan I Sabbah”, una minacciosa esortazione venata di pessimismo rivolta ai potenti della Terra, costituita da una poesia di William Burroughs accompagnata da quartetto d’archi e “programmata” da Marco “Posse” Messina: un imprevedibile contraltare ad un’altra esortazione, quella di “Yallah”, decisamente più festosa: un inno alla scoperta del ritmo e del canto, pieno di gioia (e logica) quasi fanciullesca.
Se in “Apfelsaft” – su testo ben riconoscibile di Peppe Voltarelli – la forma canzone e relativo ritornello si adattano allo stile Mandara, in “Next Step” accade il contrario: un dittico sui temi del viaggio, delle radici, del distacco e della lontananza. Due le cover, come in “Alatul”, ma più sorprendenti per tipologia stilistica. Due classici del progressive anni settanta: “L’Uomo”, dall’album omonimo degli Osanna (1971), e “The Pot Head Pixies” dei Gong, da “Flying Teapot” (1973). Dal primo, con la partecipazione diretta di Lino Vairetti, scaturisce l’omaggio ad una affinità ideale, non solo musicale; del secondo, tipico esempio della personale interpretazione del rock canterburiano da parte di Daevid Allen, si valorizza e amplifica l’elemento esotico nella vena dell’australiano giramondo. A seguire, “Tiri Tiri” e “Shundor Naya”: la prima, cantata in arabo da Marzuk Mejri su testo del medesimo; la seconda, certamente uno dei pezzi migliori dell’album, un affascinante etno-rock in lingua bengali di soggetto mitologico-amoroso, frutto della collaborazione e contaminazione con lo stile “baul” di Narayan Chandra Adhikari. Lo sbeffeggio raffinato e ironico di “B.B. The Kings” (con Alessandro Castriota Skanderbeg), un indovinello in musica al quale si fa fatica a non aggiungere una terza B, è subito rovesciato da una dolorosa e “impegnata” “Wind Song”, un rap lirico interpretato dal rapper Kiave e Amy Denio.