Share This Article
Imbattersi in un concerto degli MGMT nel novembre di 2007, in quella che era la loro prima apparizione in Europa è stata un’esperienza singolare e istruttiva. Nel tempio del pensiero unico dell’indie londinese, il KOKO, nella serata del venerdì organizzata dall’NME per promuovere new name più o meno big, gli allora Management erano il mesto supporto della band di supporto. Inevitabilmente cagati, per usare un eufemismo, a malapena dall’affollato teatro di Camden, alla distanza si sono rivelati molto più big delle altre due band, allora acclamatissime, Asobi Seksu e The Courteeners.
Non erano ancora i tempi dei tormentoni che hanno unito il popolo di MTV e dell’indie, le inflazionate “Kids”, “Time To Pretend” e “Electric Feels”.
In loro si intravedeva semmai una vena 60s molto naif, da pseudo-freakettoni chic e costruiti, comunque nostalgici a livelli patologici. Prima dei tormentoni e dello straripante hype aggomitolatosi un po’ troppo impietosamente attorno ai due ragazzi del Connecticut, negli MGMT prevaleva solo il lato più enigmatico. Lato nemmeno ripudiato nell’esordio “Oracular Spectacular”, ma senz’altro posto in secondo piano dai classici da dancefloor che li hanno portati alla ribalta. Come lasciarsi, del resto, prendere da una “Weekend Wars” o da una “Future Reflection” al cospetto del potenziale da hit degli inni generazionali di cui sopra. Così, piuttosto superficialmente, si è fatto passare anche il duo di Andrew Van Wyngarden e Ben Goldwasser per l’ennesimo gruppetto da ascolto monouso dello sterminato panorama indie. Come se Flaming Lips e derivati non fossero palesemente una delle loro ispirazioni. Come se fossero di stanza a Londra piuttosto che a Brooklyn.
Nulla di grave, a volte la prima impressione inganna. Come anticipato in anteprima assoluta da Kalporz (news), i due hanno composto il nuovo album in esilio volontario nel Sud della California, a Malibu, al fianco di Peter Kember, al secolo Sonic Boom, storico membro degli Spacemen 3. Non ci è dato sapere in che misura i tre abbiano seguito alla lettera il celebre motto della band-simbolo della scena psichedelica britannica degli anni ’80 (taking drugs to make music to take drugs to), ma bastano un paio di ascolti per farsi un’idea più o meno vaga. Manca il singolo nazional-popolare. Mancano i motivetti accattivanti che avevano reso la sigla MGMT un acronimo di dominio pubblico. Eppure funziona. Perché, a partire dal singolo di lancio il cui titolo suona come un manifesto d’intenti, “Flash Delirium”, le nervose e svampite trame dei due, convincono. Anche senza dovere a tutti i costi far muovere i culi o, a seconda delle prospettive, far dimenare le chiome delle piste più o meno cool del globo. Continui cambi di atmosfere e sbalzi emotivi da disadattati sociali come leit-motiv in questo più che nel precedente disco. Dall’apertura da neo-cantautorato barocco à la Patrick Wolf a esplosioni beat che sconfinano in overdose di mescalina da primi Pink Floyd sotterrando una latente andatura ruffiana da “Kids” parte 2. Primo singolo o forse unico singolo possibile.
“Congratulations” si apre in maniera a suo modo scioccante. Si ha davvero l’idea di avere a che fare coi figli illegittimi dei Flaming Lips o se preferite coi nipoti normali di Syd Barrett. “It’s Working” e “Song For Dan Treacy” dedicata al leader dei Television Personalities, sembrano arrivare da una dimensione aliena alla realtà e alle spiagge del Pacifico, afose e affollate di celebrità, sul cui sfondo è stato concepito l’album. In un trip così perfidamente Sixties, tra theremin e hammond infernali, chitarre acustiche evanescenti, si fatica a credere di essersi da poco lasciati alle spalle gli anni zero. L’ambient strumentale di “Lady Dada’s Nightmare” darebbe un rimando al presente con il gioco di parole del titolo, ma nella sostanza è un inquietante chiaroscuro ripescato da qualche nastro kraut-rock di cinque decenni fa e che avrebbe riempito d’orgoglio Albert Hoffman e i suoi proseliti.
I due stralunati hippie della myspace generation danno comunque seguito alle intense ballad dell’esordio con un paio di perle quali la stridente “Someone’s Missing”, sorellastra di “Youth” nel suo sottile impatto glam alla T-Rex, e le oniriche “I Found A Whistle” e “Congratulations”. L’eccentrico e delicato gusto psichedelico dei Flaming Lips e gli inevitabili rimandi ai classici, su tutti le psico-ballad agrodolci di Zombies e Love, gli abissi psichici del Barrett solista, le solitudini lunari del primo David Bowie. Immancabili sporadici sprazzi tra Beach Boys e Beatles, per la delusione di Paul McCartney, noto estimatore della band, che ha ammesso di ballare volentieri sulle note degli MGMT e di volerci lavorare insieme. Poco e nulla da ballare e molto da subire. Né Macca è in alcun modo citato più o meno tra le righe, a differenza di Lady Gaga, dei Rolling Stones (“Flash Delirium” sentenzia “you’re never be as good as the Rolling Stones”) e Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno al quale i due dedicano la traccia numero 7. “Brian Eno” è uno spettrale incontro con il compositore inglese in una cattedrale della Transilvania, trasposto in un garage-punk alla benzedrina che fa da ponte gotico tra Pink Floyd e B52’s.
Con “Congratulations” gli MGMT sembrano insomma aver messo in piedi su il second-hand shop dei loro sogni in cui i cultori del genere troveranno sempre e comunque qualcosa di valido.
Spacciate il tutto per psichedelia populista, per manierismo da turisti lisergici della domenica o più schiettamente per fenomeno di plastica. Poi provate a resistere al fascino dell’auto-annientamento nei dodici deliranti minuti di “Siberian Breaks”, ideale compendio del contributo dell’allucinato produttore Sonic Boom e summa dell’intera raccolta.
La storia del tempo di fingere, se non l’aveste capito, era solo una raffinatissima presa per il culo.