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L’appuntamento con un album dei Mogwai è una sorta di Natale che arriva ogni due-tre anni. Con percezioni contrastanti. La percezione compiaciuta che sia sempre la solita roba e la percezione che in fondo qualcosa sia cambiato. A tre anni di distanza da “The Hawk Is Howling”, è difficile aspettarsi scossoni nella formula del longevo collettivo scozzese. Il post-rock si è codificato e diffuso grazie alla loro infaticabile produzione di inni del genere. Il post-rock è andato in declino. Anche per colpa loro, perché chi ha cercato di inserirsi nel filone più guitar-oriented del genere finiva per essere uguali ai Mogwai. E dunque i Mogwai di conseguenza uguali a loro stessi. In un circolo vizioso che ha ucciso di fatto il post-rock. Il post-rock è morto, mentre il rock sembra nuovamente vivo, almeno negli States. Un paradosso. E dopo il post-rock sperare in qualcos’altro di post è una contraddizione in termini.
Il settimo capitolo “Hardcore Will Never Die, But You Will” se non altro dimostra la grande capacità di Stuart Braithwaite e soci di ideare dei titoli ai confini della pura genialità noir. E in cui non mancano riferimenti di qualità né parole che ben descrivono il sound di suite che restano per lo più strumentali. Esempio su tutte la poderosa opening track, “White Noise” come il celebre romanzo di De Lillo e come quell’eco di shoegaze nelle equalizzazioni.
I suoni comunque restano assolutamente da Mogwai. Sempre più convinti da “Happy Songs For Happy People” in poi che dilatare i brani può rendere la vita difficile all’ascoltatore. Per cui i cinque hanno definitivamente imparato a dire tutto e subito, in distillati di post-rock mai oltre i cinque/sei minuti. Eccezion fatta per il brano di chiusura, gli otto minuti “You’re Lionel Richie”. Eccezione giustificatissima perché dà un tocco di italianità alla produzione. Con il cameo di Dr.Kiko, storico dj barese dell’ATP di stanza a Londra amico della band (sua la splendida foto di copertina nell’EP “Batcat”) e di molti altri protagonisti della Albione che conta. La sua erre moscia in un breve reading introduttivo di una composizione fiabesca scritta da bambino è emozionante.
Al di là di questo etereo rigurgito da “Come On Die Young” con tanto di arpeggi spettrali e marziali esplosioni di chitarre, i Mogwai la fanno breve. E sempre e comunque a modo loro. Solo due brani stupiscono fino in fondo per trovate compositive sui-generis.
Il primo è “Mexican Gran Prix”, una sorta di tributo kraut ai Suicide. Con tanto di incedere alla Neu e di voce sussurrata e sfibrata alla Alan Vega su un tappeto di farfisa. C’è aria di Spectrum, quasi dei nostrani Julie’s Haircut dopo la cura-Sonic Boom. E un impatto elettronico più che elettrico che i Mogwai non avevano mai palesato in questi termini.
Il secondo colpo da ko è invece, a partire da uno dei titoli più belli di sempre, “George Square Thatcher Death Party”. Un post-punk infighettito da synth con le inconfondibili sovraincisioni di Braithwaite e Cummings. Un vocoder stranito rende poi l’idea della peggio-Glasgow che annega in fiumi di alcol per celebrare la morte della lady di ferro. Sì, se non vi fosse sovvenuto, è ancora viva. Ed è solo nove anni più grande del nostro premier, pur essendosi tolta – politicamente parlando – dal cazzo ben più giovane. Quello che è morto sul serio per i Mogwai era semmai Jim Morrison, protagonista nel precedente album di un altro titolo irripetibile, “I’m Jim Morrison, I’m Dead”.
Il piano è invece centrale nei momenti più cinematografici e meno cazzoni dei Mogwai. “Death Rays” è una riproposizione già sentita della loro versione più matura e rassicurante. Nulla da dire sui suoni, ma manca quello shock da ascolto che in passato era sempre dietro l’angolo. Solo la dimessa “Letters To The Metro” con un piano cimiteriale e silenzi da brivido riesce nell’impresa di lasciare davvero il segno. Prevale sempre e comunque la sensazione del deja-vu. “How To Be A Werewolf”, “Too Raging To Cheers” riprongono antichi ponti tra ambient e post-core che per quanto prodotti impeccabilmente (la garanzia Paul Savage sempre al timone) aggiungono poco al loro repertorio. Meglio quando si parte sparati e si mantengono ritmi altrettanto sostenuti (per dire alla “Glasgow Mega Snake, di “Mr.Beast”) come in “San Pedro”, uno di quei brani scaccia-satana con chitarre che ricoprono ogni spazio tra i riff demoniaci di Braithwaithe. E soprattutto la tremenda “Rano Pano”, angosciante tripudio di fuzz, da Bardo Pond che intonano una tetra osanna nell’alto dei grigi cieli di Glasgow. Figliocci dei Bardo Pond, pur avendone superato la popolarità, loro lo sono sempre stati. Se seguissero le loro tortuose strade di un post-core dissonante e dai netti connotati noise e psichedelici, chissà, forse i Mogwai avrebbero nuovamente qualcosa di stupefacente da sputare fuori.
Nell’attesa, la Thatcher si tocca.
62/100
(Piero Merola)
Collegamenti su Kalporz:
Mogwai – The Hawk Is Hawling
Mogwai– Concerto al Marea Festival (Fucecchio – FI)
Mogwai– Concerto al Nuovo Estragon (Bologna)
Mogwai– Mr. Beast
Mogwai– Government Commissions (BBC Sessions: 1996-2003)
31 gennaio 2011
1 Comment
Claudio Fontani
Io li ho trovati (come sempre) in gran forma. Certo che se ci avessero risparmiato il vocoder in “George Square Thatcher…” era ancora meglio. Molto riuscite, a mio avviso, “White Noise”, “Rano Pano”, “Death Rays” e “Letters To The Metro”.