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Che ruolo hanno, nel nostro modo di ascoltare musica, le tendenze culturali, l’opinione dominante, più prosaicamente, la moda? La questione ovviamente non nasce oggi, e non riguarda solo l’ambito musicale: ma nel momento in cui il termine “indipendenza” o indie è utilizzato come lasciapassare commerciale volto ad allargare il pubblico sempre più asfittico di questo mondo, quando riviste, webzine, circuiti di distribuzione emergono accumulando profitti a partire da un ambiente originariamente pensato come porto franco per liberi pensatori, personaggi in cerca d’autore, avanguardisti incompresi, emarginati di ogni risma, è allora sempre necessario operare a partire da una simile domanda e quadro di riferimento.
La proposta di un gruppo come gli Ariel Pink’s Haunted Graffiti da questo punto di vista appare un esempio in controtendenza rispetto alla universalmente diffusa ripresa, in questi anni, del suono e delle prerogative della musica del decennio ’80: dopo una lunga gavetta, e con numerose medaglie appuntate al petto, una per tutte l’aver pubblicato il primo album non firmato Animal Collective per la Paw Tracks, Ariel sembra decisamente emergere, con il recente “Before Today”, come l’alfiere di uno stile basato su una puntuale ed ampia rielaborazione di tutto il pop possibile, ma segnato in particolare da un pronunciato gusto kitsch che non può non ricordare la, desolante, seconda metà dei seventies. O meglio, una ben definita parte di essa, connessa ad una cassetta degli attrezzi a tal punto superata da assumere le sembianze di una audace composizione rivoluzionaria. Come molta musica del nostro tempo, per altro, il repertorio di Ariel Pink tende ad essere derivativo, a mostrare senza timore alcuni importanti debiti: non è però inessenziale quali siano queste influenze. In effetti non tanto la noia, quanto piuttosto il disprezzo per una operazione di riabilitazione di alcuni stilemi che si pensavano superati per sempre grazie alla preziosa opera di purificazione avvenuta proprio a cavallo tra i ’70 e gli ’80, emerge durante l’ascolto.
L’accoglienza, entusiastica, che l’album, considerato l’anticipazione dell’avvento di una nuova fase, ha ottenuto in ambienti insospettabilmente permeabili a questo tipo di musica, Pitchfork in testa e con esso numerosi e prestigiosi guests, le lodi di molti che si sono detti influenzati dall’autoerotismo lo-fi dell’Ariel Pink cantautore, ricorda le prime pagine del libro d’esordio di Don De Lillo, “Americana”: il party descritto dall’autore di “Rumore Bianco”, popolato da individui stanchi, facoltosi e annoiati, in cui il protagonista comprende di stare impiegando inutilmente la propria vita, ed in cui, soprattutto, è necessario ridere a battute razziste per mostrare quanto si è progressisti. Quanto la propria reputazione, in altre parole, impone di accettare: infine anche l’orrido, per non apparire rigidi, moralisti, ideologici. Un doppio livello di realtà diffuso, incomprimibile.
Fenomeni, si dirà, legati all’emersione dall’anonimato, ed alla costruzione di circuiti che, in ogni caso, tendono a premiare la qualità della proposta, al netto di qualche concessione all’eccentrico, all’artistoide, a barocchismi aggirabili dal gusto dell’ascoltatore formato. Ma, anche concedendo tutto ciò ad un ipotetico interlocutore, resta la sgradevole sensazione di un panorama “indie”, termine inesistente in quanto tale, ma utile semplificazione “giornalistica” per così dire, infiltrato da almeno due elementi ad esso originariamente estranei: in primo luogo la tendenza all’assunzione acritica di alcune pratiche commerciali, e quindi la subalternità a logiche di mercato alle quali l’etica punk e in seguito indipendente si è sempre dichiarata irriducibile, facendo di tale carattere la propria ragione sociale e grimaldello rivoluzionario. Perché in fondo, la tesi secondo la quale il mercato premierebbe la qualità altro non è che un’illusione. La mente in questo caso non può che andare a quella sorta di classe media rock’n’roll costituita da Strokes e Franz Ferdinand, per fare nomi di una certa qualità, ma anche da Kings of Leon e White Lies, per portare esempi privi, al contrario, di alcuna dote. L’altra componente estranea ad una certa etica e pratica rock è, in secondo luogo, la ricerca dell’inconsueto ad ogni costo, della stramberia rococò e magari del virtuosismo ostentato: è il caso di alcune classifiche di fine anno stilate da prestigiosi commentatori di storiche riviste musicali italiane, le quali non mancano mai del riferimento trash, della proposta anti-puritana d’occasione.
È l’insieme di queste componenti, qui brevemente delineate che, a parere di chi scrive, produce una consuetudine piuttosto diffusa e discutibile: la ricerca ossessiva del salvatore, di un messia che ponga in una luce inedita e spiazzante l’intero panorama, la cosiddetta next big thing. Pratica senza dubbio rischiosa, perché da un esercizio di questo genere può emergere un James Blake, ma anche, inevitabilmente, un Ariel Pink.
Ebbene, forse abbiamo bisogno di nuovi bacchettoni punk, di storici hardcore di vaglia, che ci ricordino che Ariel Pink e la sua musica rappresentano tutto ciò contro cui i nostri padri, zii, fratelli maggiori in camicia di flanella, hanno combattuto. No, non deve passare.
(Francesco Marchesi)
23 febbraio 2011
19 Comments
Piero Merola
non fate i nerd, ariel pink ne sa
Paolo Bardelli
Perché usi il plurale? Interloquisci con Francesco!
Stefano Solaro
Io l’ho sentito dal vivo in un localaccio berlinese e, nonostante un impianto audio paragonabile a quello di camera mia, ha fatto davvero un figurone !! Grande presenza scenica, ottime doti tecniche del gruppo, spazio all’improvvisazione e suono sporcatissimo, ai limiti del punk, per restare in tema …:)
Lorenzo Centini
a patto che non si condanni il bisogno umano di qualcosa di frivolo e spensierato, mi pare invece un sacrosanto avvertimento a non abbassare la guardia.
e poi non è da “nerd” disseppellire l’AOR, piuttosto?
Piero Merola
Cos’è più trash? Un Duchamp o un affresco rococò?
Piero Merola
(Comunque lo scritto mi piace, tranne il parere su Pink, che poi a Cobain ci somiglia come fisionomia)
Lorenzo Centini
il trash è un’ottima cosa! evviva il trash. ma non è la rivoluzione (nemmeno duchamp lo è).
Francesco
ottimo articolo, scritto divinamente. ma non ne condivido la linea argomentativa. alla fine lo stesso proclama “non deve passare” non può che apparire vagamente reazionario e conservatore alle mie orecchie. anche perchè diciamoci la verità: cos’è stato il punk? la fine delle demisitificazione nella musica pop? o un suo nuovo inizio? siamo sicuri che l’importanza storica di questo fenomeno vada rintracciata nella sua capacità di svecchiamento e innovazione rispetto agli schemi precedenti?
Per quanto riguarda invece Ariel Pink io inizierei col dire che, rispetto a tanti altri, le sue capacità di comporre canzoni sono notevoli e questo a prescindere dalle fonti che utilizza. Anzi, direi che la cosa che più risulta interessante è il modo assolutamente creativo in cui le utilizza. Almeno per me. E non c’è solo AOr, ma anche soul, certo prog, gli ELo, i Fleetwood Mac, tonnellate di Zappa, le colonne sonore. Senza contare che l’uomo in questione ha sempre portato avanti un percorso di ricerca autonomo e molto consapevole che solo tardivamente ha raccolto, quasi per caso, un vasto interesse da parte dei media più grossi e chiacchierati. Tutte le letture, anche le più critiche, sono ovviamente lecite, ma non tenderei a non vedere proprio in lui il segno più allarmante di uno svuotamento morale della musica di oggi. Forse questo vuoto è l’essenza stessa del rock dal tempo di Elvis.
Francesco
ho cannato un passaggio: “la fine della MISTIFICAZIONE? o un suo nuovo inizio?” sorry 😉
Francesco Marchesi
Ciao a tutti, grazie per il dibattito! Provo ad interloquire schematicamente:
Ariel è solo un esempio utile per descrivere alcuni fenomeni, d’altra parte si, in effetti detesto i suoi riferimenti, ma non vuole essere questo il centro del pezzo. Quando parlo di punk intendo qui un insieme di elementi etico-politici, quello che, in altre parole, gruppi come i Minutemen vedevano in esso (ad esempio). In particolare l’istituzione di almeno due opposizioni: mercato-creatività e tecnica-valore. Da un lato è necessario sottrarre spazi di libertà al mercato (tradizione profondamente radicata negli Stati Uniti), dall’altro è preferibile una certa essenzialità e minimalismo.
Infine, non c’è alcuna condanna della frivolezza, ma la ricerca di un sistema per evitare la notte in cui tutte le vacche sono nere.
p.s. Piero, nerd si ma solo 2.0 (anche se al Primavera lo scorso anno avevo il tristissimo pezzo di carta). Ma dicci di più, se vuoi ovviamente.
Francesco
un ultimo appunto personale (scusa se ti rompo le scatole ma la questione mi interesa molto e ne ho discusso per mesi con Lorenzo a proposito dei più svariati musicisti). Sono d’accordo con te che “punk” indichi e definisca essenzialmente un’attitudine o anche un’”etica”. Ma questo vuol dire per me che essa, oggi più che mai, può sposarsi a qualsiasi forma di espresione musicale. Più nello specifico, io credo che un artista come Ariel Pink, (un campione bulimico del do it yourself, peraltro) con la sua esuberanza provocatoria e camelontica, sia molto più punk e concettualmente anarchico di quanto in genere si sia disposti ad ammettere. Poi, ma è una mia personale opinione, l’ideologia oppositiva dell’hardcore americano degli anni Ottanta forse non vale più o non vale nello stesso modo, di fronte ad una realtà del mercato musicale come quella odierna, radicalmente cambiata (da un certo punto di vista si potrebbe quasi sostenere che l’autoproduzione/ autopromozione dei gruppi si sia ormai affermata su scala planetaria come pratica diffusa e consolidata…)
Francesco Marchesi
Nessun disturbo, interessa anche a me. Il problema è che la questione è complessa e l’esposizione per forza schematica (mi riferisco al mio commento precedente). Sono d’accordo con quello che dici, ma proprio perché oggi una attitudine punk (di cui io ho isolato alcuni elementi, ovviamente non è stato solo questo) può sposarsi con molteplici proposte e sono cambiate le regole del mercato, secondo me è necessario uno sforzo per trovare un nuovo criterio, qualche punto di riferimento discriminante. Altrimenti va bene tutto (come nel party di “Americana”). E allora l’unica cosa che mi viene in mente è ripartire dall’ultima grande rottura etico-musicale e provare a lavorare su quel paradigma aggiornandolo, eventualmente scartandolo.
Ariel è un campione del diy ed ha fatto la gavetta, ma personalmente non riesco a non trovarlo provocatorio per il solo gusto di provocare. Tecnicamente non lo trovo nemmeno frivolo, magari leggero ma piacevole. Ma qui siamo nell’ambito delle preferenze individuali, resta l’esigenza generale.
Francesco
ti ringrazio per la pazienza e per tutte le puntualizzazioni. vediamo così ci riserva il futuro
Lorenzo Centini
ma insomma, chi ha vinto?
Francesco
i Radiohead, che domande…
Matteo Marconi
Alla malora i canoni e i criteri!
L’unico faro sia la buona letteratura e il buon cuore.
Il resto fa solo volume.
sart
tu francesco dici un sacco di cose interessanti ma non stai parlando di Ariel, e invece il titolo dell’articolo è molto offensivo, per Ariel.
il povero Ariel non ne sa un cazzo di tutto ciò, lui vuole solo cercare di fare delle ottime composizioni pop!
sei il classico ultra-nerd che sputa sul piatto dove mangiano 7-8 nerd nel mondo.
voi persone intelligenti non ascoltate la musica col cuore, fate solo delle disamine.
prova ad ascoltarlo.
ringrazio di aver perso la mia intelligenza alle superiori.
Redazione
Precisazione necessaria: il titolo, come in ogni redazione che si rispetti, non è opera di Francesco 🙂
Francesco Marchesi
Continuo a non cogliere il significato del termine “nerd”: cioè uno che tenta una riflessione sarebbe un nerd se capisco bene. Un po’ come “ideologico”, va bene per tutto.
p.s. si, in effetti la mia proposta di titolo era più cerebrale, nerd se volete…