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Pronti, cuffie e via! Nel traffico mattutino i Gang Of Four dopo 16 anni di silenzio tornano a martellare dalla fiera Leeds il ritmo da tenere, dicendoti come scartare una macchina qui, un bus lì, come muovere bene il passo per saltare atleticamente sul marciapiede un attimo prima che quel motorino ti metta sotto… tanto tu ridi e gorgogli interiormente di trionfo perché “She said ‘you made a think of me’” promette che la giornata sarà un successo dietro l’altro, dominata da un’energia personale che farà di ogni unità di misura pastina alla salsa per bambini.
“Content”, come “contenuto” ma anche come “contentezza”, medito sul titolo della rentrée e mentre inizia il secondo brano “You Don’t Have to Be Mad ” sono convinta che i Gang of Four siano tornati alla grande come il buon pastore che viene a dare una sistematina al gregge delle pecorelle che nel frattempo si era sparso ovunque. Ricordo quando quest’estate li vidi all’Ypsigrock di Castelbuono, un Jon King autorevole, in giacca e cravatta che spaccava tv di plastica sul palco, Andy Gill ubriaco come una scimmia che avrà interrotto l’esibizione non so quante volte, il basso di Thomas McNeice che spaccava il cuore e sentivo che non saremmo arrivati alla fine del concerto… l’esibizione era il racconto che i Gangs facevano di sè, la lettura di una pagina scritta come promemoria in attesa del ritorno. E ora eccoli qui, a ritorno consumato, mi dico, e resto in attesa…
Ma a “Who Am I? “, la terza traccia, mentre un passante davanti a me rallenta l’andatura senza apparente motivo e fa perdere il ritmo di marcia, avverto una stonatura che comincia a far circolare il pensiero a ruota libera. La chiamerei “sindrome da non inciso”, pericolosa in quei primi attimi che stabiliscono il grado di compromissione con un nuovo album. Anche se “I Can’t Forget Your Lonely Face” trent’anni fa sarebbe stata la chiamata alla armi che precedeva la tempesta devastante della fisicità di King e Gill, e la seguente “You’ll Never Pay for The Farm ” l’inizio effettivo dell’offensiva bellica, sono arrivata alla quinta traccia e ancora non ho sentito una sola frase musicale catchy. E lo stesso “I Party All The Time”… che devo dire? E uguale smorfia con “A Fruitfly in the Beehive “, e costernazione ad libitum…
Quando inizia “It Was Never Going To Turn Out Too Good”, l’ottava traccia che resterà nella mia memoria come l’esperienza horror di un terrificante e inutile vocoder, il velo di Maia tanto restio si squarcia insieme al cielo del mattino. Inizia a piovere e riesco in pochi secondi ad essere sotto il portone del mio ufficio… Sono arrivata e non me ne sono nemmeno accorta.
“Content” mi muore tra le braccia e di fronte a questa sensazione non c’è niente da dire. Ho ascoltato quasi un intero album aspettando ingenuamente un punk rosso, una rivoluzione sorella di rivoluzioni vere, una consolazione che gonfiasse il cuore di vecchio orgoglio, quel tanto che basta per resistere con riservatezza, invece ho ascoltato una retorica, pure decadente, da ideologia senza più stagione. Insomma, credevo fosse amore e invece era solo un calesse! Colpa mia.
“Content” è un lavoro da ipod, che magnifica l’andatura mentre cammini per le strade della città, che funziona da catalogo urbano, sound azzannante, suoni garage che vivacizzano i sensi tutti, finché non inizi a chiederti cosa stai ascoltando e soprattutto da chi lo stai ascoltando. Stop.
Il drumming finale di “Second Life”, ultima amena traccia, che vuole dire “siamo tornati e non c’è più trippa per gatti” cadenza solo il passo con cui anche stamattina torno al mio lavoro. Ma vi chiedo: esiste una delusione più deprimente? Qui l’unica trippa che c’è, è quella dei culi flaccidi, e sarà questa nobile catagoria a sommergerci!
55/100
(Stefania Italiano)
23 Febbraio 2011
1 Comment
Lorenzo Centini
e sempre a sparlare dei culi flaccidi! lasciateli lavorare!