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Costato al gruppo più di due anni di duro lavoro (ai limiti della nevrastenia), più volte annunciato e poi rinviato, tra rifacimenti, soldi volatilizzati nel nulla e ritocchi mai definitivi, esce finalmente in mondovisione “Helplessness Blues”, il secondo agognatissimo atto della pièce a nome Fleet Foxes. Alla fine, dunque, Robin Pecknold ce l’ha fatta, ha arpionato il bianco capodoglio del suo incubo ossessivo e lo ha trasformato in un sogno monumentale a cui ci chiede ora di prendere parte.
Se l’esordio di tre anni fa era una raccolta di canzoni incantevoli e fresche come acqua sgorgata da pietre millenarie, il nuovo lavoro asseconda un libero fluire di forme barocche, uguali e diverse come il discorso infinito di acque che, dopo lo zampillo iniziale, sanno farsi cascata impetuosa e scrosciante. Non per niente si è parlato di Roy Harper o di Van Morrison. Pezzi come “Sim Sala Bim”, “Lorelai” o “The Plains/ Bitter Dancer” somigliano infatti, più che a canzoni, a lunghi poemi naturali scritti con l’inchiostro panico dei quattro elementi, polifoniche dissertazioni sulla musica profonda delle sfere, che prendono l’ascoltatore e lo scagliano al fondo pulsante di furie oceaniche per poi asciugarlo sulle pietre di deserti onniscienti. Eppure la forza pittorica e l’arditezza strumentale, ai limiti dell’iperbolico, di composizioni come “The Cascades” (quasi in odore di Milk Olfield o di certo folk-prog canterburyano) o “The Shrine/ An Argument” colpiscono proprio per la loro capacità di parlare e di raccontare naturalmente, senza mediazioni difficoltose, malgrado la loro stessa aggrovigliata, rizomatica, complessità. È il fuori che fa irruzione e scompagina il dentro, ma senza violenza, l’infinito che si sporge in una melodia o la melodia che si sporge nell’infinito, come se, in un certo senso, tutta la musica fosse appena nata o stesse per finire (non per niente lo stesso Pecknold ha dichiarato che la sua intenzione era quella di realizzare un album con l’urgenza inevitabile di chi si trova a registrare poco prima della fine dell’universo).
Le arborescenze di voci e di strumenti a corda si intrecciano e germinano come un ciclo organico di morte e generazione ininterrotte, liberando una materia brulicante di suoni e colori che disgrega i confini stessi delle canzoni, facendole straripare letteralmente l’una dentro l’altra. Cosa che, nella nostra fantasia, ci porta ad intravedere un legame inspiegabile ma fortissimo tra questo disco e quello di Josh T. Pearson, il menestrello-teologo che, col suo recente “Last Of The Country Gentlemen”, ha saputo illuminare il tormento e l’estasi di una grazia amara, intonando sermoni lunghissimi e intricati come la sua barba abramitica. Da quello stesso territorio arrivano le arie celestiali dei Fleet Foxes. Ma in “Helplessnes Blues”, come detto, non troverete canzoni. O meglio, ne troverete una soltanto, di cui non potrete scorgere né l’inizio né la fine.
87/100
(Francesco Giordani)
10 maggio 2011