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Di taroccato il secondo cd di Maria Taylor ha solo la copertina: un microfono malandrino copre volutamente il naso di Maria non proprio baciato da proporzioni greche. La bellezza non conta per una cantante-indie, si dirà (ma è così poi per davvero? secondo voi la signorina Joanna Newsom avrebbe fatto quel successo se non avesse avuto quella faccina angelica che si ritrova che tanto fa suonatrice d’arpa?), contano solo le note e vabbé facciamo finta di non essere nel 2007 dove tutto è immagine, però lasciateci questa annotazione non per valutare se Maria Taylor è gnocca o no come Carla Bruni, ma solo per annotare un taroccamento voluto di cui non ce n’era bisogno. Eh sì, perché per il resto tutto “Lynn Teeter Flower” ha davvero tutte le carte in regola per essere definito un disco sincero. E anche bello, se ancora vuol dire qualcosa questo termine.
L’ex metà delle Azure Ray sfrutta al meglio quella sua voce che sembra nata apposta per cantare, ci sono cantanti che ti accorgi che hanno lavorato molto sulla voce e hanno studiato tanto, per Maria Taylor vale l’opposto: più lei canta naturale, più il suono è armonioso. Un po’ come per Ginevra Di Marco, e scusate la partigianeria per l’ex musa dei PGR ma come interprete lei ci piace un sacco, punto. La Taylor si dedica con accondiscendenza al dream-pop, organetti sixties fanno capolino in canzoni come “Smile And Wave” o “A Good Start” e donano rotondità a quello che potrebbe essere, altrimenti, solo un alt-folk americano e nulla più. Tentazioni “da musical” a parte (“Replay”) che appaiono un po’ fuori luogo, il resto funziona sia se i toni sono dimessi (“Small Part Of Me”, “Clean Getaway”) sia se si rasenta il bluegrass (“The Ballad If Sean Toley”, con ospite d’onore Conor Oberst dei Bright Eyes). E poi se in un album c’è almeno un pezzo come “My Own Fault” è tutto ok, tutto andrà per il meglio, come si direbbe in un thriller hollywoodiano. Alla Saddle Creek si staranno fregando le mani, perché Maria Taylor e Orenda Fink fanno il loro dovere anche se sono separate, anzi ora che lo sono fanno il doppio incasso.
Per il successo indie-universale bastava che il disco fosse prodotto da Steve Albini, ma così non è. Le nostre annotazioni maschiliste dell’inizio c’entravano come i cavoli a merenda, ma era l’unico modo per attirare l’attenzione sopperendo alla mancanza del produttore di Pasadena.