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Probabilmente la raffazzonata retorica dell’artista tormentato dal mal di vivere ha portato un certo scetticismo nei confronti di chi, nelle dichiarazioni ufficiali, se ne esce con frasi tipo: “La musica mi ha salvato” oppure: “La musica rappresenta tutta la mia vita”. Sono perfettamente d’accordo con questa linea di pensiero, infatti molto spesso queste esternazioni provengono dalla bocca di cialtroni mestieranti in balia del music-business che non hanno mai avuto un briciolo d’amore né per stessi né per il pop in generale. Probabilmente esagero, ma quando si ascoltano tonnellate di musica inutile la soglia dell’irritabilità diventa molto bassa. Ma non è solo un problema di chi vi scrive, ma anche di chi, per diletto, si mette in casa centinaia di dischi che magari ascolta una sola volta e, dopo averne constatato l’effettiva scontatezza, li ripone da qualche parte dimenticandosene. Di dischi così ne sono pieno e, in tutta franchezza, un po’ mi sono rotto i coglioni.
È per questo che l’ascolto di “Blinking Lights And Other Revelations” degli Eels sembra una Rivoluzione Francese: Mark Oliver Everett non parla per frasi fatte e dopo aver assistito inerme alla morte della sua famiglia (padre, madre, sorella – “Elizabeth On The Bathroom Floor” in “Electro-Shock Blues” – e cugina morta nell’attentato dell’11 settembre, hostess sull’aereo schiantatosi sul Pentagono) può veramente permettersi di farsi salvare dalla musica, senza retorica e circostanza. A parte questo, la Rivoluzione Francese nasce dal fatto che la doppia opera con cui E ha deciso di dare il seguito al buon “Shootenanny” del 2003 è un miracolo di compattezza, continuità e qualità. Sono 33 canzoni e sfido a trovare qualche momento superfluo, qualche arrangiamento di troppo, qualche riempitivo o qualche inutile paraculata. Inutile cercare il pelo nell’uovo, non c’è.
Con questo disco, gli Eels mettono a segno uno dei loro lavori migliori (“Beautiful Freak” ed “Electro-Shock Blues” hanno marchiato a fuoco gli anni ’90 e restano irraggiungibili), mettendo assieme tutte le componenti tematiche – dal dolore alla malinconia, dalla caustica ironia all’umorismo nonsense dai contorni barocchi – e musicali della loro carriera per farne una specie di sunto oltre a tracciare coordinate ben delineate per il futuro. Troviamo quindi canzoni che guardano al passato come “The Other Shoe” e altre che, nonostante un impronta caratteristica e una personalità definita, diventano quasi dei manifesti per il prosieguo della carriera artistica di Everett (“Trouble With Dreams”, che sottolinea il gusto raffinato di E per le orchestrazioni pop).
Ovvio che non bisogna aspettarsi cambiamenti radicali (“Souljacker” del resto, ha dimostrato come certe volte anche i migliori possano sbagliare clamorosamente), ma semplicemente un pop tout-court che trova nel suo artigianato uno stato di grazia che di questi tempi è raro trovare, che sbaraglia i suoi concorrenti diretti – un tempo era Beck, adesso potremmo mettere anche Badly Drawn Boy – e mette in chiaro come un frammento di cuore sanguinante trasposto in musica riesca ad essere, se trattato con l’occorrente onesta che ci aspettiamo da un personaggio come E, quanto di più meraviglioso e sublime da ascoltare.