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John Maus è uno di quei personaggi bislacchi di cui la musica pop contemporanea ha un terribile bisogno. Trentunenne (è nato lo stesso giorno di George Frideric Handel), originario del Minnesota, dove a tutt’oggi abita, dichiaratamente omosessuale, John Maus si è addottorato in filosofia in Svizzera qualche anno fa e per guadagnarsi da vivere attualmente svolge la professione di docente universitario. Già inserito nella cricca bohemien di romantici ladri di stelle che gravita attorno al guru Ariel Pink, il nostro ha pubblicato tre album in cinque anni (tutti targati Upset The Rythm), piegando, con sempre maggiore arguzia, il bricolage postmoderno di eroi sommersi come Stevie Moore, Jad Fair e Calvin Johnston a quella che è, in ultima analisi, la sua maggiore, se non unica, ossessione concettuale: il synthpop di Ultravox, Cabaret Voltaire, Depeche Mode, Gary Numan e Fad Gadget. Da un certo punto di vista, potremmo trovarci di fronte all’erede naturale di Momus (per chi ancora se lo ricorda).
Beffardo burattinaio di fantasmi, Maus si produce, in questa sua ultima operetta dal titolo vagamente gesuitico, in una serie di notevoli esercitazioni sofistiche a cavallo tra gli Human League e Jacques Derrida. L’attacco di “Streetlight”, e ancor di più la subito successiva “Quantum Leap”, lasciano ben poco spazio alla fantasia: la voce è esattamente quella di un amletico zombie che si regge la testa tra le mani come una lanterna e si fa strada nella foresta del dubbio, guidato da sintetizzatori balbettanti e non troppo lontani da quel neo-kitch hypnagogico che va tanto per la maggiore in quest’ultimo periodo (prestate anima e orecchi, tanto per dire, a “The Crucifix” o a “Head For The Country”). E se un teorema perfetto come “Keep Pushing On” ha tutta la stoffa della hit malandrina (come potevano avercela, solo un anno fa, certi momenti del migliore Twin Shadow), è soprattutto per il tramite di “Believer” che Maus sfiora l’Idea e, con la punta delle dita, quasi afferra la mela appesa al ramo più alto: un punto in cui felicità e disperazione arrivano a coincidere per qualche brevissimo istante che pare eterno.
Similmente al collega Dirty Beaches, anche John Maus ha scelto di specializzarsi nella costruzione di piccoli palinsesti e mitologie immaginarie che somigliano a mondi in sé compiuti ma che sono in realtà soltanto il teatro di un io solitario, un io che cerca in tutti i modi di uscire da se stesso. Che ci riesca o meno, la lotta ingannevole di quest’anima solipsistica contro le proprie illusioni ha in sé qualcosa di eroico ed eclatante, che ci cattura.
75/100
(Francesco Giordani)
26 Agosto 2011