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Non fai in tempo a voltarti che è successo… Bonnie Prince Billy è ingrassato! A nemmeno sei mesi dall’ultima folgorante prova di “Lie Down in the Light” si ripresenta, puntuale con la prolificità che l’ha reso leggendario ma anche decisamente appesantito. Ad essere in questione qui non è la forma fisica del folksinger americano in sè (che rimane degna di un eremita dolomitico) bensì quella delle sue produzioni: l’orgogliosa agilità delle ultime composizioni ha ceduto il posto ad una generale opulenza negli arrangiamenti. La strumentazione non è cambiata, resta sempre quella propria di ogni ensemble di musica folk/country/traditional che si rispetti, con percussioni, chitarre acustiche e steel, violini fiddle, qualche fiato… Ciò che cambia casomai è il modo di usarla. Rispetto al suo immediato predecessore (che lo strumentario lo dosava con il contagocce) il Principe ha pensato bene di srotolare tutto il gioiellame su lussuosi tappeti sonori, e di farne bella mostra. Una ricchezza che in certi passaggi si traduce soltanto in una maggiore sofisticatezza nelle rifiniture, ma che in pezzi come “You don’t Love me” può anche sfuggire al controllo e deragliare in una sorta di danza campestre per vaccari alticci.
Fortuna che a mettere un freno al rischio di pacchianeria c’è il basso profilo dell’Oldham interprete, in questo sempre perfettamente misurato e capace di livellare anche le sue stesse magagne. A cose ormai avviate sentiamo risorgere l’anima essenziale di “I see a Darkness” che si fa strada fra le “note dolenti” di “There’s something I have to say”, passa in rassegna il country elegante di “Without Word…” e si arena nell’ottima e conclusiva “Afraid ain’t Me”, abbandonandoci proprio mentre le cose stavano facendosi interessanti.
Così rimpinzati di suoni e di cori vocali, gli arrangiamenti di “Beware” sono un contorno così ricco da mettere dubbi sul valore della portata principale: le scritture. Tanto fieramente sbandierate in “Lie down in the light” – e in altri titoli a firma Palace Brothers – quanto sospettosamente nascoste in questa sede, dove pure rimangono al centro della proposta. Forse non è casuale che il lancio del disco sia stato affidato a “I am Goodbye”, uno dei pochi brani che ricordino quanto il songwriter sia in grado di concepire melodie vincenti anche con pochissimo a disposizione. Ripensando bene alle mire certosine del nostro uomo tutto il discorso potrebbe essere ricondotto, più che ad un pigro accomodamento, ad una precisa volontà autoriale: mettere da parte la forte cifra personale che aveva filtrato le sue cose più recenti e avviarsi verso una stesura più ordinaria o, a voler essere educati, “classica” e “tradizionale”. Due aggettivi, questi, che Oldham sta dimostrando di conoscere in innumerevoli varianti.