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Era il 2007 quando si cercava di capire chi si nascondesse dietro l’enigmatico acronimo di The Field. Contratto con la Kompact come garanzia da scatola chiusa (Michael Mayer, Superpitcher, Gui Boratto), due remix per Battles e 120 Days. Poi la scalata verso il successo con la riedizione di “Cymbal Rush” dall’esordio solista di Thom Yorke e il capolavoro “From Here We Go To Sublime”. Una techno spaziale ed eterea, di facile presa anche per le fazioni più dreamy dei rockettari e un successo di critica inaspettato.
Il gigante di Stoccolma ha saputo creare un sound inconfondibile, dopo solo due album virando sempre più verso strutture vagamente pop. Non solo per l’utilizzo di batterie vere e proprie (con un collaboratore non da poco quale Stanier di Helmet e Battles), ma anche per la struggente cover à la Brian Eno di “Everybody’s Got to Learn Sometime” dei Korgis (sì, quella rifatta da Beck oltre che da Zucchero). Non c’è due senza tre, perché anche “Looping State Of Mind”, terzo capitolo per il producer svedese, ha tutte le credenziali per definirsi album della consacrazione. Il titolo è tutto un programma per i peculiari loop spaziali e atmosferici che caratterizzano le sonorità di Willner.
Sette brani con minutaggi sconsiderati per le esigenze di velocità e metabolizzazione dell’ascolto di questi anni.
L’ancestrale ossessivo basso di “Is This Power?” pulsa che è una bellezza tra i consueti vorticosi synth. Un intenso flash di nove minuti che annebbia la mente. “It’s Up There” accelera su ritmiche più techno, da novello Aphex Twin scandinavo o da Lindstrøm svedese. In base al contesto di comparazione.
La prima frenata panoramica nelle galassie multistrato di The Field arriva con “Burned Out” a testimoniare una maggiore varietà in ritmiche e tempi rispetto al passato. E poi finalmente il potenziale catartico ed emozionale dei loop in tutto il suo splendore nella più rilassata e cinematografica titletrack e in “Arpeggiated Love” che lambisce la IDM più sofisticata lungo una traiettoria di circa undici minuti che si arricchisce gradualità di campioni e riverberi fino a spegnersi nell’oscurità.
E come d’incanto arriva il momento-Eno (o per derivazione, da Radiohead/Sigur Ros). Base minimale, piano narrativo, voci da un’altra dimensione. In “Then It’s White” emergono ancora una volta i progressi nella scrittura di Willner. Nella conclusiva “Sweet Love Baby” l’animo più sperimentale e dissonante. Voci sempre aliene e impercettibili, perse tra echi e inghiozzanti loop dal retrogusto glitch. La base sempre sul punto di variare che invece scorre insistente sulla sua linea.
Assumere con cautela.
87/100
(Piero Merola)
7 Settembre 2011