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Il modo migliore per iniziare a spiegare questo esordio discografico probabilmente è partire dalla locandina di “I’m Not There”, quello strano bio-pic sulla vita di Bob Dylan, uscito nel 2007 e firmato da Todd Haynes. Quella locandina citava gli attori presenti nel cast: “Christian Bale, Cate Blanchett, Marcus Carl Franklin, Richard Gere, Heath Ledger, Ben Whishaw – are all Bob Dylan”. Come a dire che se uno vuole raccontare Bob Dylan, non può usare un solo attore, una sola faccia, una sola personalità: sarebbe limitativo. Da qualche settimana è uscito il primo album di L.A. Salami, “Dancing With Bad Grammar”. Guardate un po’ la copertina: non vi dice nulla?
Non è solo una questione di immagini somiglianti, ma anche e soprattutto di suono: in questo esordio lo spirito di Bob Dylan si percepisce ovunque, praticamente in ogni traccia, con la consistenza di uno spirito guida. E come non potrebbe, vista la storia personale di Lookman Adekunle (da qui le iniziali L.A.): cresciuto in una famiglia adottiva, uscito di casa prestissimo, girovago instancabile, su e giù per i quartieri di Londra, città che molto presto è diventata la protagonista delle sue canzoni. In tutto questo c’è molto del primo Dylan, o della mitologia alimentatasi intorno alla figura del primo Dylan, quello che con una chitarra acustica raccontava storie di rose, cervelli, innamorati, oche, cigni, angeli, caos, orologi, cocomeri. E politica.
Di politica è intriso anche questo “Dancing With Bad Grammar: The Direc Cut”. Cantastorie post-moderno errante per i sobborghi urbani, Salami racconta le iperboli vuote del mondo che gli è intorno – il primo brano estratto, “The City Nowadays” è una specie di sermone laico spietato, che si conclude così: “Everything’s the best film of the year – Fast food films – Fast food music – Fast food politics – Fast food ideologies – What’s the worth of working to live at the cost of your soul?”. Versi che non possono che ricordare anche, e parecchio, gli spoken act di Gil Scott Heron, accompagnati da chitarre taglienti che eccheggiano direttamente dal rock elettrico anni ’60 (Hendrix? Certamente). Influenze musicali e lo sguardo personale dell’autore si mescolano, alimentandosi, dando vita a un recitato disilluso ricco di metafore di certo non inconsistenti. Un momento di catarsi preparato alla perfezione dalla precedente “I Wear This Because Life Is War!”, in cui Salami dà sfogo alla rabbia fino a lì solo latente con un cantato a tratti anche sguaiato. È proprio qui il cuore pulsante dell’album, la parte più viva, la chiave di lettura dell’intero disco.
Prima e dopo, Salami lascia spazio a balla folk e blues dal sapore antico, di nuovo dylanesco. Prima di trarre conclusioni affrettate, è meglio specificarlo: siamo ben lontani dall’imitazione, piuttosto molto vicini alla celebrazione di un modo di intendere il ruolo di cantautore. Va bene, l’armonica in “No Hallelujahs Now” e “Day to Day (for 6 days a week)” è proprio quella lì, ma anche in quei brani, e nel resto dei momenti acustici, si respira sempre autenticità. Qua e là c’è spazio pure per qualche sorpresa, come il jangle-pop languido e romantico di “I Can’t Slow Her Down”, la coda sperimentale dell’ultima traccia “Pete The Monkey; The Baptism Of Petter The Young”, o l’inframezzo tutto parlato “Papa Stokely (skit)”, in cui emerge anche una certa attenzione verso l’universo hip-hop, almeno per quello che riguarda il suo linguaggio.
Libero di sconfinare i generi musicali, di cimentarvisi e di darne una propria interpretazione, L.A. Salami si presenta come un nuovo sorprendente autore contemporaneo. È la sua stessa produzione artistica a dircelo chiaramente: prima di questo “Dancing With Bad Grammar…” è uscito “The Prelude EP” nel 2014, il cui titolo è emblematico. E stando a quanto dice lo stretto interessato, sono già pronti altri cinque album, già scritti, già pronti: più che di fronte ad un disco, si ha insomma la sensazione di essere di fronte al primo volume di una grande opera letteraria in divenire. E il primo tomo ci lascia ben soddisfatti.
72/100
(Enrico Stradi)