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Dopo due riuscite opere soliste di Lisa Gerrard, sua relativamente più nota compagna di intriganti e misteriose avventure nel progetto Dead Can Dance, ecco che anche la voce maschile dell’enigmatico duo si ritaglia un suo meritatissimo spazio, producendo un album di notevole rilievo. Diciamo subito che chi si aspetta le tipiche atmosfere create durante più di quindici anni di fascinoso binomio artistico potrebbe rimanere un po’ deluso; qui il taglio delle canzoni è quasi classicamente cantautorale, come del resto dimostra il ripescaggio di “I must have been blind”, perla assoluta del siderale repertorio di Tim Buckley. Certamente la tipologia dei pezzi è in linea con quello che un utente informato si aspetta ascoltando un’opera della 4AD, quindi non certo salsa e merengue ma atmosfere sul malinconico-sepolcrale. Quello che salta all’orecchio ascoltando “Eye of the hunter” è questo riuscito mix di idee quasi folk-country adattate e filtrate da una sensibilità profonda, la quale è da sempre in contatto con i più svariati soggetti musicali, anche grazie alla vicinanza con la Gerrard, appassionata di esotico-esoterico. L’album è formato da otto intensi capitoli, nei quali troviamo almeno un capolavoro assoluto, “Saturday’s child”. Canzone dall’incedere lento ed epico, con il bel vocione di Perry in primo piano che ne scandisce il malinconico ed evocativo mood; una delle più belle canzoni di questi ultimi tempi. Si prosegue con l’ipnotica “Voyage of Bran” e la ballata, molto Leonard Cohen, “Medusa”. Con “Sloth” si ritorna a ronzare intorno al capolavoro; questa composizione avrebbe ben figurato anche nel repertorio di Tim Buckley, tanto sembra disegnata per le splendide evoluzioni vocali del compianto singer. E guarda caso, subito dopo “Sloth” ecco la già citata “I must have been blind”, che Perry affronta con grande rigore ed intelligenza, evitando di peccare di lesa maestà. “The captive heart”, dove per la prima volta fa capolino una timida batteria, “Death will be my bride” ed “Archangel”, a lungo cantata in un falsetto a due voci che potrebbe far pensare ad un’orazione funebre postmoderna. In effetti la frase che chiude l’album è una bella pietra tombale: “…How long must we carry on?” Brrrr, sento un po’ freddo ora, magari mi scaldo con una bella salsa…(al pomodoro, che avete capito!)