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A volte ritornano. Ormai, quasi ciclicamente, l’ombra ingombrante del vecchio dirigibile rispunta dagli scaffali dei negozi, in bilico tra il settore “Novità” e il già affollato “Oldies”. Sta di fatto che ogni volta che si parla dei Led Zeppelin, l’interesse sale alle stelle, e il prodotto in questione diventa inevitabilmente un evento. E proprio di evento in questo caso si tratta. “Live at the Greek” è infatti la testimonianza di un fortunatissimo tour americano che ha visto come protagonisti il sempre più acciaccato ma inaffondabile Jimmy Page, e il gruppo dei Black Crowes, paladini di un “vintage rock” di qualità ma negli ultimi tempi piuttosto in ribasso. La formula vincente: vecchi brani dei Led Zeppelin riproposti da un superstite illustre accompagnato da una fedele, rispettosa e soprattutto giovane band. Ciò che colpisce innanzitutto di questo doppio live è la scelta dei brani; pochissime concessioni ai cavalli di battaglia e grande spazio alla vena più “bluesy” degli Zeppelin. Così finalmente trovano rilievo e giusta dignità vecchi brani mai più riproposti dagli Zeppelin nei loro ultimi mastodontici concerti, come “The lemon song”, “You shook me”, “What is and what should never be”, o piccole gemme fino ad oggi troppo delicate per affrontare l’impatto del palco, come “Your time is gonna come” o “Ten years gone”. Da segnalare anche la presenza di classici del blues come “Shake your money maker” o “Woke up this morning”, standard consolidati con cui il blues man Page non può che trovarsi a proprio agio. Certo, poter saccheggiare dal repertorio dei Led Zeppelin è un po’ come avere a disposizione le chiavi del Louvre: grande possibilità di scelta e, qualsiasi sia questa scelta, si casca sempre in piedi. Ma l’esecuzione? Indubbiamente il suono è quello “roccioso” del buon vecchio hard rock anni ’70. Certo, in alcuni momenti può sorgere un filo d’ilarità quando si sentono tre chitarre eseguire all’unisono lo stesso riff, come se ci fosse un maestro circondato da ragazzini che hanno imparato troppo bene la lezione. Se, con un po’ di malignità, si dovesse parlare di esubero di chitarristi in questa line up, a fatica si stabilirebbe chi è di troppo. Anche il cantante Chris Robinson sembra trovarsi abbastanza a proprio agio con il repertorio zeppeliniano (evitati accuratamente i brani più legati al timbro di Sua Maestà Robert Plant, tra cui l’intoccabile “Stairway to Heaven”), anche se i suoi referenti più immediati possono esser individuati in Mick Jagger o al limite Rod Stewart, piuttosto che nel riccioluto cantante degli Zeppelin. A conti fatti, questo disco non regala certo molte sorprese; Page non può che essere uguale a se stesso, e i Black Crowes sono discepoli fin troppo diligenti. Insomma, nulla di nuovo è stato detto. Probabilmente questo disco costituisce semplicemente un biglietto d’invito per uno show dal vivo (forse in arrivo anche nella nostra penisola) che comunque non può che regalare grandi emozioni.