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“A Night at the Opera” non è solamente un disco “importante”; è un’esplorazione a 360 gradi attraverso le sterminate possibilità che, negli anni ’70, il rock pareva offrire ai musicisti dell’epoca. Questo disco è lontano anni luce dal pop “leggero” (peraltro pregevole in alcuni episodi) che ha decretato il successo dei Queen in tutto il mondo. “A Night at the Opera” è il capolavoro di un gruppo che a soli tre anni dalla sua nascita ha trovato quel delicato equilibrio alchemico che riesce a unire personalità artistiche molto diverse ed allo stesso tempo complementari. È inutile comunque sottolineare che il disco è dominato dalla schiacciante ispirazione di Freddie Mercury, qui al pieno delle sue possibilità espressive. In mano a Mercury, i Queen diventano un duttile strumento attraverso cui sperimentare le commistioni sonore più stravaganti. L’autoironia e il giocare con la propria musica è sicuramente una delle qualità più interessanti dei primi Queen. “A Night at the Opera” è tutto questo; un capolavoro a metà tra farsa e tragedia. Nei Queen il contributo dei singoli componenti come autori di canzoni è da sempre stato fondamentale; anche in “A Night at the Opera” le diverse anime del gruppo affiorano con prepotenza fungendo da contraltare alla travolgente creatività di Mercury. È così che possono trovare spazio brani come “’39”, bellissima ballata country del chitarrista Brian May, o “You’re My Best Friend”, allegra canzoncina del bassista John Deacon, molto vicina al soul elettrico di Stevie Wonder. Ma è evidente, il “leitmotiv” del disco è un altro: le sonorità morbide di un pianoforte che esegue fini arpeggi alla Scarlatti accompagnate da una hard rock band. E proprio di hard rock si può parlare già con il brano d’apertura del disco, “Death on Two Legs”, in cui veri e propri riff pianistici alla Mussorgskij si intrecciano con la affilata chitarra di Brian May. E sicuramente il capelluto chitarrista dei Queen è il protagonista sonoro di questo capolavoro. Possiamo continuare ad inchinarci periodicamente di fronte alle funamboliche imprese pseudo-musicali dell’ultimo guitar-hero italoamericano, ma chi può vantare il suono inconfondibile di Brian May? La chitarra di Brian May, sinuosa e morbida come un violino, è la voce strumentale ideale su cui si poggiano le composizioni di Freddie Mercury, da “Love of My Life”, splendido brano in bilico tra “Love Me Tender” e i “Lieder” di Schubert, fino all’assoluto capolavoro, “Bohemian Rhapsody”. Hard rock, lirica, pop; tutto è concentrato nei cinque interminabili minuti di questo brano, in cui si ha la sensazione di attraversare mondi e dimensioni sconosciuti, come l’improbabile protagonista della canzone, prima carnefice e poi vittima di una schiera di diavoli affamati della sua anima. Verrebbe da dire che “A Night at the Opera” è irrimediabilmente “kitsch”: dal “packaging” del disco, con le sue incomprensibili mascherine da carnevale di Venezia, alle pièce da rivista teatrale contenute nel disco come “Lazing on a Sunday Afternoon” o “Seaside Rendezvous”. Può darsi. Forse è proprio questo ricercato cattivo gusto “old fashioned” a rendere questo disco così “eterno” e fuori da ogni moda o epoca musicale. Purtroppo nulla di eterno vi è nel rock; all’epoca, l’immortale melodia di “God Save the Queen” che chiude il disco non lasciava certo presagire la fine tragica di questo geniale gruppo dalle risorse illimitate.