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Nel marzo 1967 pochi si accorsero dell’uscita dell’album d’esordio di una band destinata a influenzare buona parte della musica contemporanea sia da un punto di vista strettamente musicale sia per l’aspetto più propriamente culturale e di costume che sempre contraddistinguerà il gruppo.
Un disco che fotografa nitidamente un momento di creatività esaltante come quello della Factory di Andy Warhol, che fu produttore del disco e disegnò la celeberrima copertina raffigurante una banana gialla.
Canzoni in bilico tra dolcezza e rabbia, tra luce e tenebre, raccontate dalle parole di Lou Reed, cantore della New York viva e sporca di quegli anni, del lato selvaggio della strada, di droga e sesso. La musica, come i versi che accompagna, è talvolta aggraziata talvolta fragorosa fino a farsi quasi rumore, influenzata tanto dal rock elettrico quanto dagli esperimenti di La Monte Young e di certa musica contemporanea. Oltre alla strumentazione classica del rock, spicca la viola elettrica dal talentuoso John Cale, bassista e anima del gruppo insieme a Reed.
I Velvet Underground si proposero subito come gruppo unico per la forza dei testi e l’originalità della musica. “Heroin” o “I’m waiting for the man” sono racconti di vita drogata che richiamano William Burroughs, “Venus in Furs” è un insuperato capolavoro nell’unione di violenza e amore in poche parole colme di realtà. Ma non è tutto qui. C’è la dolce malinconia di “Sunday Morning”, il marasma di “European Son”, la semplicità di “There She goes again”.
E poi Nico, la donna fatale che accompagna sogni e parole di tre brani dell’album, la cupa “All Tomorrows Party”, i melodiosi versi d’amore di “I’ll be your mirror”. Canzoni che splendono come gemme.