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E alla fine Miles Davis si decise ad attaccare la spina… Anticipato da lavori come “Filles de Kilimanjaro” e “In a Silent Way”, “Bitches Brew” portò definitivamente a compimento quella “svolta elettrica” che da tempo era nell’aria. E allora: imponente e ridondante stuolo di musicisti (basti dire: tre batteristi più un percussionista!), sovraincisioni spudorate (orrore per gli amanti del jazz) e ritmi sicuramente più “digeribili” a chi fino ad allora aveva sempre e solo ascoltato rock.
Un disco brutto, che ha fatto perdere l’identità a quello che è forse stato il più creativo genere musicale del novecento, svendendolo di fatto a quel rock così “facile”?. Ma no, tutt’altro! Proviamo a ragionare al di fiori di schemi prefissati: “Bitches Brew” è in assoluto uno dei più bei dischi di musica (intendendo con questo termine l’assenza di testi e di canto) mai fatti, veramente fra i più grandi del novecento.
Un lavoro di rottura, fortemente rivoluzionario come ai tempi lo fu la “Saga della Primavera di Stravinsky”. Manca, è vero, la bellezza del timbro strumentale acustico, ma non si può non rimanere affascinati da questi impasti strumentali e, soprattutto, dalla tromba di Davis che, pur non essendo più quella di “Kind of Blue”, risulta sempre personalissima, pronta a “distillare” rade ed incisive note.
Inutile parlare della band (bastino i nomi di Shorter al sax, Dejonette alla batteria e Chick Corea al piano), mentre una menzione d’onore la merita la confezione della recente versione rimasterizzata, dotata di un bel libretto, curata sonicamente e arricchita da un brano inedito.
Se “Bitches Brew” vi piacerà, non potrete dire di apprezzare il jazz, ma potrete sicuramente, a mio modesto parere, dire di apprezzare la grande musica.