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Radiohead: o anche l’impossibilità di essere normali. Dopo attese e ripensamenti vari, dopo mesi di indiscrezioni e continui rodaggi in studio e perfino dal vivo di progetti e suoni, ecco finalmente la creatura, “Kid A”.
Thom Yorke ha dichiarato che il titolo rappresenterebbe il primo bambino clonato e bisogna ammettere che il contenuto dell’album è molto aderente a questa inquietante affermazione del cantante e compositore di Oxford. Il lavoro è formata quasi interamente da un insieme di suoni cupi, tetri ed indolenti e quelle che sarebbero definibili come normali canzoni non sembrano altro che diversi bozzetti destinati a prendere altre forme. Il primo ascolto è spiazzante: le classiche linee melodiche sono praticamente assenti od affiorano qua e là (per esempio nell’opening track “Everything in its right place” o nella monocorde e malinconica “How to disappear completely”). Altre volte sembra che vi sia un tentativo di fare uscire la linearità (“In limbo”), ma che questa venga poi espressamente tarpata dallo stesso volere del gruppo, il quale sembra davvero abiurare il ritornello a tutti i costi.
Effetti meravigliosi ed arditi, comparsate inaudite di una sezione fiati stravolta dalla distorsione e dal missaggio (“The National Anthem”), alcuni (non voluti?) omaggi ai Japan (nella title track), a David Sylvian, King Crimson, Pink Floyd ed agli ultimi Blur.
“Kid A” lascia un’impressione di rarefazione ed aridità quasi visibile e toccabile con mano, un “soul desert” che pochi avrebbero avuto la forza di mettere in scena dopo un successo planetario come “Ok Computer”. “A” è un bambino che nasce senza passato e radici, in un clima da tragedia imminente. Forse la tragedia della modernità.
25 settembre 2000