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L’album esce dopo un periodo di lavorazione lunghissimo, spezzato da mille progetti e remix di pezzi altrui. L’attesa si intreccia alla sensazione che i Massive siano stati fiaccati dal successo e dai loro impegni dispersivi: ma Mezzanine è un album intenso e curatissimo, che ripaga dei quattro anni di silenzio discografico. La novità apparente è che la musica è molto più suonata rispetto agli album precedenti: chitarre e batterie rubano spesso il posto che era stato dei turntables e dei campionamenti. A ben vedere, perà, i ragazzi di Bristol non fanno altro che seguire il loro percorso di esplorazione sonora, incuranti delle etichette che si sono trovati appiccicati (trip hop? dub? boh), non sentendosi per niente costretti a fare musica solo con i campionamenti o, al contrario, solo con basso e chitarre. Quello che piuttosto accomuna i suoni di Mezzanine è la ricerca di vibrazioni cupe e avvolgenti, che costruiscono atmosfere inquietanti e misteriose, a volte condite di melodie orientaleggianti (“Inertia Creeps”, “Group Four”): chitarre e piatti da dj non sono altro che strumenti per mescolare i suoni e tirarne fuori variazioni imprevedibili. Ai suoni cupi si affiancano testi altrettanto scuri: tutto il disco è giocato sul filo dell’ansia, della paura, ed è dichiaratamente ispirato al paranoico Taxi Driver di Martin Scorsese, regista venerato dai Massive. Nuova compagna di viaggio è Liz Fraser dei Cocteau Twins, voce raffinatamente “dark” in piena sintonia con la sofisticata inquietudine dell’album (“Teardrop”, “Black Milk”); ma c’è sempre il vecchio amico Horace Andy, in forma smagliante (“Angel”, “Man Next Door”). Mezzanine è un album splendidamente “notturno”, che conferma i Massive Attack come tetri stregoni sonori degli anni ’90.