Share This Article
Ed eccoci finalmente, nostro tempore, ai fasti supremi, quando “ci si sciolsero le ginocchia e il cuore” (Omero) nell’ascolto di quella che rimane, a mio parere, la prova di fatto più alta dell’epopea U2: è il marzo ’87 ed i quattro di Dublino regalano al mondo “The Joshua Tree”.
E subito si scatenano e si sprecano i paragoni con ben altri Fab Four, ricorrendo proprio allora il ventennale di Sgt. Pepper’s (ma sarà una nostra condanna a vita essere sempre rimandate e rimandati ai mitici, logori, strepitosi e, urliamolo, (sor)passati Sessanta, per decidere e giudicare ogni cosa, dal Vestito al Viaggio al Disco al Sogno???). Diventa comunque pressochè inutile citare brani quali “Bullet the Blue Sky”, “Red Hill Mining Town”, “Where the Streets Have No Name”, “With or Without You”. Parlare di “I Still Haven’t Found What I’m Looking For”. Dire di una “Exit” che vuole resuscitare lo sciamano Jim (arieccolo!), della quasi minimale (e LouReediana) “Running to Stand Still”.
Questi hanno veramente fatto centro, sissignore e signori, e per quanto non mi piaccia parlare di “capolavoro”, non trovo altro termine: certo non sono i valori tecnico-artistici in senso stretto a raggiungere un’altezza assoluta, quanto piuttosto lo straordinario impatto… emotivo, il senso di avere aggiunto un altro mattoncino, il nostro, al Castello del Rock, e di potervi finalmente e veramente essere ammessi, una riuscita fusione di musica e immagini che ancora emana calore…