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Un vero e proprio punto fermo è rappresentato da “War”: cifra caratteristica dell’album è certamente l’impegno, evidente nei testi e nella cura particolare riservata al lato musicale, grazie anche alla collaborazione con Steve Lillywhite; l’acidità del violino elettrico e coriste d’eccezione quali le Coconuts completano un’opera finalmente matura. La rivolta invocata da testi come” New Year’s Day” o l’ipercelebrata “Sunday Bloody Sunday” non è che l’aspetto più superficiale ed immediato della straordinaria carica che il gruppo, ora forte di una nuova unità dopo voci di crisi, e di una più salda autostima, riesce a comunicare anche e soprattutto dal vivo: il tour che segue, e che sarà poi base del successivo “Under a Blood Red Sky”, viene giudicato dalle riviste specializzate come il migliore dell’anno. Ed è addirittura Mr. Who, Pete Townshend, sceso per un attimo dall’empireo dei Grandissimi e degli Splendidi, ad investire solennemente gli U2 della propria eredità. Rivolta politica, certo, che non tralascia episodi di tremenda contemporaneità, la difficile situazione irlandese, i fermenti nell’Est europeo; ma ancora lotta personale, contro restrizioni di ambiente, di famiglia, di pensiero: And in leather, lace or chains we stake our claim/ Revolution once again. D’accordo con le nostalgie e i “Do you remember sixty-eight?”, gli orizzonti attuali sono o sembrano incerti; trovo però perlomeno consolante, ed originale, che quattro ventenni a metà degli anni ’80 tentino di dire la loro sulla realtà circostante, con ingenuità, senza pretese di verità assolute. Ma con una sincerità, ed un’energia, che lasciano ben sperare.