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Leggero, suadente, conturbante… “Born To Do It” di Craig David sembra ereditare lo stile che ha reso celebri artisti del calibro di Marvin Gaye. La sua voce sensuale e vellutata accompagnata da una rielaborazione elettronica di soul music, con una chitarra acustica che segue come un’ombra le doti canore di questo inglesino, ci sembra funzionare e come. I testi parlano quasi solo ed esclusivamente di amore, sesso e baci; ma non stancano neanche un po’. Questo nuovo/ vecchio genere, ribattezzato “Two Steps”, trova in Craig già uno degli interpreti più importanti e probabilmente darà il via ad una nuova moda.
Noi, nell’attesa che questo accada (tenendo presente che non è detto che sia un bene) ci godiamo questo ottimo album. La durata è di circa 49 minuti per 12 canzoni: si parte con “Fill Me In”; scordatevi di cantarla insieme a lui o seguire le parole mentre lui la esegue: il suo fraseggio è talmente veloce e ricco di “slang” che andrete al manicomio!! Il brano parla di una ricerca forsennata di una fantomatica “ragazza della porta accanto” che, una volta trovata, viene costantemente spiata e desiderata. Come inizio non c’è davvero male: i ritmi ripetitivi della base sono molto avvolgenti. Si prosegue con “Can’t Be Messing ‘Round”: bellissima: il ritmo è più concitato, David con le parole è ancora molto rapido e, l’incontro fortuito con una donna da lui raccontato, è coadiuvato da una voce rap che fa da fuori campo.
Più calma ma sullo stesso tema viene snocciolata anche “Rendezvous”, preludio del bello e fortunatissimo singolo “7 Days”: sicuramente “la bellona” del video che G. David conquista (e ti pareva!!) non passa inosservata e tutti avremo detto «beato lui!!»; comunque, bellona o meno, il pezzo vale la pena di essere ascoltato anche senza, peraltro piacevoli, distrazioni di tipo visivo; scorre benissimo e l’accompagnamento più accentuato della chitarra enfatizza l’atmosfera di un brano che di sicuro merita di occupare le prime posizioni delle hits europee. “Walking Away” è più rockeggiante e parla di un tentativo di fuggire dai problemi della vita (credete che lui ne abbia?) e di estraniarsi dal resto della gente, mentre “Time To Party”, con evidenti inflessioni di “disco” anni ’70 (almeno dall’attacco), racconta i famosi “Friday nights” londinesi. Solo nel finale, con “Rewind”, il disco si infiacchisce un po’, mentre nella precedente “You Know What”, Craig David sfrutta la sua voce in maniera più incisiva e, con un sottofondo di «we were meant to be together for eternity», confeziona una brillante e accattivante sovrapposizione di voci.
Tirando le somme, l’album unisce il “vecchio soul” ed il sound della nuova generazione in una miscela vincente ed efficace, che non deluderà né i nostalgici né i più giovani.
A presto