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Dopo “Close to the Edge” gli Yes incidono in studio questo ambizioso doppio album concept: dalle stelle alle stalle verrebbe detto. Un infortunio che per molti versi ha del clamoroso, soprattutto perché incorso nel periodo di massimo fulgore del gruppo. E, d’altra parte, come dimostreranno col seguente “Relayer”, gli Yes sono tutt’altro che finiti o a corto di idee, come potrebbe apparire da quest’opera sgangherata che, lungi dall’esprimere quella che probabilmente doveva essere l’intenzione di Anderson e compagnia bella, cioè la realizzazione del capolavoro assoluto, a coronamento di quanto mostrato sino a quel momento, rasenta livelli di insufficienza insopportabili. Si fatica a credere che solo l’anno precedente gli Yes avessero prodotto dischi come “Fragile” e “Close to the Edge”. L’opera qui in esame è suddivisa in quattro grandi quadri da circa 20 minuti l’uno, legati da tematiche misticheggianti. Il primo in verità non fa presagire la nullità di quelli seguenti: è un brano piacevole, con una struttura definita; bello l’inizio di voci sovrapposte che crescono d’intensità sino all’ingresso degli strumenti; procedimento utilizzato, al contrario, anche per il finale. Ma piuttosto bella è tutta la parte vocale, con alcuni momenti strumentali degni del gruppo inglese. Niente di strabiliante, certo, ma tutt’altro che indegno. Purtroppo non sufficiente a rivalutare un album di cui costituisce all’incirca un quarto. La differenza col brano seguente è subito evidente: inizia la farragine, la mancanza di fili conduttori, di temi vocali e strumentali accettabili. Ma il peggio è in agguato nel secondo CD: buio profondo. Dispiace dirlo, ma qui si giunge al livello di inascoltabilità: c’è totale piattezza sia vocale che strumentale, un procedere sconclusionato, senza un punto di riferimento, suoni buttati lì come per caso: è fin irritante, oltre che noioso. In 40 minuti non ci riesce di ricordare un solo guizzo di vitalità. Non si tratta necessariamente, come scrive Cesare Rizzi (in “Progressive”, Atlanti Universali Giunti, Firenze, Giunti, 1999), di “eccessiva autoindulgenza”, di sintomo involutivo: noi preferiamo parlare tout court di carenza compositiva, di mancanza di ispirazione. Non ci sembra neppure che “Tales…” contenga “alcuni dei momenti di maggior corposità e ridondanza del suono Yes”: questo può valere per un album come “Relayer”, ben superiore a questo. Di ridondante qui c’è l’inutilità, non certo il vero suono Yes. Un mesto arrivederci per Rick Wakeman (che si rivedrà nella seconda metà del decennio), sostituito dallo svizzero Patrick Moraz. E sì che da certi sfegatati amanti degli Yes “Tales from topographic Oceans” è apprezzato ed esaltato: de gustibus…
Alla batteria c’è Alan White. La copertina di Roger Dean: se dicessimo che si tratta della cosa migliore dell’album non ci allontaneremmo poi molto dalla verità.