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Ultimo disco degli Yes con Trevor Rabin, che qui si occupa ampiamente, oltre che delle chitarre, anche delle tastiere; relegando Tony Kaye al ruolo di comparsa: cioè al solo organo Hammond. Un po’ poco in verità. La formazione è dunque la stessa di “90125”. E anche il tipo di musica è sostanzialmente lo stesso. Il brano d’apertura, “The Calling”, è forse quello che ricorda più da vicino i predecessori degli anni ’80: grande facilità d’ascolto, imponenza del ritornello corale e dello strumentale. Ma il canto corale e specialmente i ritornelli corali sono una costante di tutto l’album; spesso zuccherosi e addirittura, in “Endless Dream”, di sapore vagamente chiesastico. Un brano, quest’ultimo, che per la sua lunghezza (circa 15 minuti) e per essere suddiviso in tre parti, ci aveva fatto sperare, o meglio illudere, di poter ascoltare qualcosa che ci riportasse ai vecchi tempi, anche solo di striscio. Non manca qualche spunto interessante, qualche bella movenza (di pianoforte ad esempio), ma rimangono isolati, come slegati, in un brano che non riesce a soddisfare l’ascoltatore più esigente: le tre sezioni risultano scarsamente coerenti fra loro; pressoché inutile l’ultima, da nemmeno due minuti. Gli slanci strumentali rimangono ad uno stato embrionale, senza sviluppi di rilievo: come nella parte centrale, dal titolo “Talk”, di gran lunga la più vasta: fanno capolino suoni elettronici che sanno di riempitivo senza molto significato. L’esordio del brano è strumentale, nulla più che piacevole. Rispetto alle ambizioni che probabilmente doveva avere, “Endless Dream” risulta dunque nel complesso un poco scialbo. “I Am Waiting” ha il suo punto focale nella chitarra di Rabin, che esegue praticamente un ritornello strumentale, come sempre effettistico, vicino addirittura a certo Joe Satriani (tipo “Flying in a blue Dream”): conferma della cultura musicale di Rabin, assai differente da quella progressiva. In “Real Love” noi sentiamo delle lontane movenze ‘crimsoniane’, sia nella parte vocale che in quella strumentale, possente e corposa, alla ricerca di atmosfere inusuali. Ci sono anche meno coretti del solito, e ciò non è male; Anderson è lasciato più isolato e il canto risulta così meno ridondante. Lo stesso accade in “State of Play”: sono forse i pezzi migliori del disco. “Walls” è invece il peggio: ritornello da Mulino Bianco, la voce di Anderson soverchiata e ridotta ai margini. Le cose migliorano con “Where will you be”, un lento pacato, dall’inconsueta (per gli Yes) patina antica, quasi popolaresca.
Ricapitolando: non possiamo accusare “Talk” di essere opera scarsamente ispirata; diciamo che quello che può dare lo dà, ed è pure suonato e registrato bene. Alla fin fine (ma sì va, sbilanciamoci) è di ascolto gradevole. Ma è per gente che si accontenta, e di palato non particolarmente esigente. Un nostro caro amico usava questo disco per addormentarsi: un utilizzo, osiamo dire, non così offensivo come potrebbe sembrare. Anderson e Rabin firmano tutte le tracce.