Share This Article
La Storia si confronta con la Storia, e noi non possiamo fare altro che assistere immobili a questo scontro titanico. Questa è una delle tante, sparse, randomizzate impressioni che un inguaribile fan dei Pink Floyd (quale io sono) può avere ascoltando il doppio live di Roger Waters “In The Flesh”. Il materiale contenuto in questo disco fa riferimento al recente tour americano del transfuga floydiano, e, come tutti i live “importanti”, oltre a scelte scontate presenta anche delle sorprese.
La prima scelta, apprezzabile ma non certo scontata, è quella di affrontare un repertorio già proposto fino alla nausea dai “titolari”. Si affacciano così brani immortali come “Another brick in the wall”, “Wish you were here”, “Comfortably Numb”, “Breathe”, “Time”, “Money”. Versati questi inevitabili tributi, Waters si spinge verso altri frontiere. Come egli stesso sostiene nelle note di copertina, il suo intento non è quello di riproporre pedissequamente canzoni che sono già state eseguite all’infinito “by another band” (sic!); il live lascia soprattutto spazio ad altri piccoli e grandi gioielli, gioielli forse troppo sbrigativamente trascurati “dall’altra band”.
E così riprendono vita canzoni come “Pigs on the Wing Part I”, “Dogs”, “Welcome to the Machine”. Certo, data l’indubbia paternità, non ci si dovrebbe meravigliare più di tanto del fatto che questi ed altri brani (come anche “Mother”, altro grande “recupero” di questo disco) dovessero aspettare Waters per trovare nuovamente o per la prima volta una dimensione live. E a questo punto naturalmente ci starebbe tutto un dibattito all’ultimo sangue: chi è la vera anima dei Pink Floyd? Roger Waters? David Gilmour? Chi dobbiamo andare a sentire se vogliamo assistere un concerto dei Pink Floyd? I Pink Floyd o Roger Waters? “In the Flesh” lascia questo dubbio ancora in sospeso.
Volendo essere sinceri, devo dire che nell’affrontare le “super-ritrite”, questo disco esce piuttosto malconcio. Ammetto che può trattarsi di una sorta di “imprinting”, una specie di assuefazione ad un certo suono, ma le versioni di Waters risultano a mio parere piuttosto vuote, povere di quel “tiro” necessario per un live. Non fraintendiamo; le canzoni rasentano ovviamente la fotocopiata perfezione esecutiva, ma ugualmente pare che manchi qualche spezia al piatto finale. D’altro canto, Waters non lesina l’uso massiccio di coristi/e che in certe occasioni lo sostengono, con imbarazzanti effetti monofonici da gita scolastica. Ma soprattutto, sacrilegio tra i sacrilegi, alcuni assolo di chitarra, come quello di “Another Brick in the Wall” o quello finale di “Comfortably Numb”, ricordano solo lontanamente gli antichi fasti del fine cesellatore Gilmour.
La tensione del confronto e l’esigenza della variazione scompaiono quando la band affronta i vecchi pezzi tratti da “Animals” o “The Final Cut”. E qui troviamo il buono del disco. I venti minuti di “Dogs” toccano picchi di intensità inimmaginabili, e anche “Mother”, seppur interamente cantata nel refrain da una corista, crea angoli intimistici anche in uno stadio da 90.000 persone.
Trova spazio anche la produzione solista; perlopiù ballate claustrofobiche in pieno stile Waters, intrise ancora di suggestioni belliche. La canzone che chiude il disco, “Each Small Candle”, è l’unico inedito, tassello di un futuro lavoro che non promette nulla di nuovo.
“In the Flesh” è un disco certamente indicato per quanti sono alla ricerca di chicche recenti o più antiche (scordavo di citare “Set The Controls For The Heart Of The Sun”, risalente al periodo “pompeiano” dei Pink Floyd) o che desiderano un confronto diretto con “l’altra faccia della Luna”.