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Qualche maligno potrebbe chiedersi che senso abbia un nuovo disco degli Allman Brothers nel 2000; un altro maligno potrebbe chiedersi che senso può avere far uscire un nuovo album live contenente esclusivamente canzoni che hanno ormai quasi trent’anni. Ce n’era veramente bisogno?
Lasciamo la risposta a tutti coloro che intenderanno accostarsi a questo “Peakin’ At The Beacon”, ennesimo live di una band che indubbiamente ha dato molto di più dal vivo che in studio. Innanzitutto, bisognerebbe rispondere ai maligni che alcuni pezzi contenuti in questo live (come ad esempio “Every Humgry Woman”) sono stati eseguiti rarissimamente dal vivo da Greg Allman e soci. Inoltre, un disco come questo restituisce la speranza che certe idee, le buone idee, hanno la forza e la dignità di non cambiare. Infatti, la band si presenta sul palco del Beacon Theatre con la grinta e l’energia che l’ha sempre contraddistinta; un blues-rock sanguigno e deciso, concentrato soprattutto sulle ricche ed elaborate parti strumentali, che non tradisce le proprie origini. Certo, non ritroviamo più quelle interminabili (e un po’ pretenziose) sezioni improvvisate in cui lo scomparso Duane Allman faceva la parte del leone. Ad ogni modo, brani come “Ain’t Wastin’ Time No More”, “Please Call Home” o la romantica “High Falls”, non perdono certo d’intensità. In ogni brano, la band presenta una compattezza e una coesione davvero invidiabile, soprattutto nei potenti riff in cui l’Hammond di Allman si fonde e si confonde con le chitarre di Dickey Betts e Derek Trucks.
Insomma, ciò che ne risulta è un album essenziale, scarno e a tratti “vuoto” (questa impressione viene fomentata dalla quasi totale assenza del pubblico nelle tracce del disco, fatto piuttosto insolito per un disco degli Allman Brothers); una sorta di “Live At Fillmore” in versione liofilizzata. Tuttavia, “Peakin’ At The Beacon” restituisce fedelmente l’entusiasmo e la voglia di suonare di un gruppo che ha attraversato trent’anni di carriera non propriamente facili. Esso ci fa venir voglia di assaporare gli Allman Brothers in quella che sarebbe la loro dimensione ideale: un fumoso locale del Midwest, in cui si balla sui tavoli e si tirano bottiglie di Bud sul palco. Ma forse è chiedere troppo.