L’album definitivo? Se domandate in America non troverete molti seguaci. Lì dove nacque tutto il giochino del rap, la musica deve stare abbracciata stretta al movimento. In Europa invece i The Roots hanno ricevuto ben più della stima raccolta in patria. La stima nel vecchio continente è diventata venerazione, in Francia, in Germania, e con “Things Fall Apart” persino in Italia. Chi ha ragione? Procuratevi “Illadelph Halflife”, e vibrate…
“Do You Want More?!!!??!” è un album di jazz. L’esordio dei Roots non lo si poteva ignorare, la scena hip hop scopriva nuovi talenti in quel di Philadelphia, gente con skill superiori ma dalla passione insana per il jazz. Cosa farne di questa nuova stranezza? Pronti! La si chiama jazz-rap, non male eh! Le si crea un ghetto personale da cui il movimento può tenerla d’occhio, atteggiamento legittimo perltro. Il mito intanto monta, e “The Leggendary Roots Crew” colonizza l’Europa. Solo, è l’America che conta… Le cose cambiano con questo “Illadelph Halflife”. Ora proprio si doveva fare i conti con i sette fenomeni della ridente Philly. Stavolta il jazz e il rap sono mescolati al meglio, e il prodotto è incandescente. L’anno, il 1996, è il caso di dimenticarlo. L’hip hop in quel periodo rantolava , già si pensava a dove seppellirlo che i Roots sganciano la bomba. Venti tracce di cui forse conoscerete già “Respond/React” e “Clones”, o forse, se vi piace il beatbox, “? Vs. Scratch”. E figuratevi lo stupore quando in concerto ?uestlove e soci si portavano l’orchestra. Suonavano live! Del resto è “La migliore live band dell’hip hop secondo Rolling Stones”, nel bollino in copertina. Innovazioni, trovate, talento. E la creazione dal nulla della scena a Philadelphia. Okay, la scena a Philadelphia c’era già, ma sono i Roots il bollino di qualità. A Kalporz abbiamo già incrociato un loro pupillo, una loro creatura. Si tratta di Common, che con “Like Water for Chocolate” ci ha dato anche nel duemila un po’ di Roots. E pensare che è di Chicago…
Fate largo ai maestri. I Gangstarr di Premiere e Guru sanno di jazz, e naturalmente gli A Tribe Called Quest e gli altri Native Tongues. I Poor Righteous Teachers, i Brand Nubian… Tanta gente che ha in comune con i Roots anche un altro fattore, forse pure più esposto: la saggezza. Fanno parte di quel club di artisti mistici e intelligenti che, mi rendo conto, si fa fatica a associare all’hip hop. Sono pregiudizi, girando un po’ la scena si trova genio e lungimiranza. Solo che dai tempi di Rakim questa intelligenza non brillava così. Nelle liriche, nella musica, nella presenza scenica, il marchio Roots sa di buon gusto e di insegnamento. Che passa naturalmente, senza forzature e senza presunzione. Va bene, non sono gli unti del Signore, ma sono pur sempre una crew di musicisti venticinquenni dal curriculum impressionante. Il curriculum potete trascurarlo, “Illadelph Halflife” no. Ora, via il cappello e inchino profondo…