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Nati in piena era prog-rock, i Camel si formano nel 1972 a Londra. Peter Bardens, tastierista con illustri esperienze nei Them di Van Morrison, incontra Andy Latimer (chitarra e flauto), Andy Ward (batteria) e Doug Ferguson (basso), tutti e tre membri della Philip Goodhand Tait’s Band. Il risultato del meeting è un nuovo gruppo, il quale si inserisce nell’imperante corrente progressive, con un profitto sempre maggiore. Il sound è filo-Canterbury, tanto da sospettare qualche parentela con il gruppo madre di quella scena, i Wilde Flowers di Wyatt, Ayers, Hastings etc. Così non è. Di sicuro essi si pongono sul versante prog-melodico, battendo una strada abbastanza simile a quella dei Caravan dei cugini Sinclair.
“Camel” è ancora un disco qualitativamente piuttosto acerbo, dove già si può notare la grande perizia tecnica dei quattro musicisti. Le idee in verità ci sono e canzoni come “Mystic queen” e “Never let go” sono lì per dimostrarlo. Il fatto è che il tipico suono Camel (netto, pulito, liscio come l’olio, un po’ glaciale) non è ancora completamente a fuoco e le composizioni nel loro complesso non spiccano su altre di quel periodo. E’ chiaro che si parla e si giudica retrospettivamente, facendosi influenzare da un’intera carriera. Preso a sé stante, “Camel” è un buon disco, con una grande intro (“Slow yourself down”, clamoroso il suo cambio di ritmo) e mirabili assoli sparsi qua e là. Un reperto archeologico che fa piacere ogni tanto riascoltare, come riaprire una cassapanca e ritrovare una vecchia macchinina o qualche soldatino. Cose lontane nel tempo, insospettabilmente radicate.