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“New York” è un disco piuttosto importante per noi, per quello che ha rappresentato. Era il 1989, avevamo sedici anni e di Lou Reed non conoscevamo praticamente nulla, giusto “Walk on the Wild Side” e nient’altro. Questo disco ci aprì un mondo: le parole, la voce, la musica di Lou Reed. Fu il primo passo in quella direzione.
Non è esclusivamente una questione personale, però. “New York” è un disco essenziale e intenso, come i migliori lavori di Lou Reed. Un disco che racconta storie, da affrontare “come fosse un libro o un film”, dichiara Lou nelle note di copertina. Storie che girano intorno a New York, la città di Reed e la sua musa ispiratrice, alla gente che ci vive e sopravvive, alle sue strade e alle sue luci, al suo rumore e alla sua musica.
Storie di amori difficili come in “Romeo and Juliet”, di rabbia e violenza come in “Hold on” e ” Busload of Faith”. Storie di impotenza come per il reduce del Vietnam di “Xmas in February”, o come “Endless Cycle”, due spoglie ballate acustiche. In cui “il passato continua a bussare alla mia porta e io non voglio più sentirlo” come canta l’autore in “Halloween Parade”, lieve ballata sulla paura dell’AIDS. E poi ” Pedro vive fuori dal Wilshire Hotel”, la voce di Lou racconta il desiderio di Pedro di andarsene, di fuggire, di volare via dalla strada sporca, le chitarre che improvvisamente accelerano. E’ “Dirty Boulevard”, un pezzo imperdibile, uno dei brani più intensi mai composti da Reed. Il disco si chiude con “Dime Store Mystery”, un pezzo che ricorda i Velvet Underground, omaggio all’amico Andy Wharhol, scomparso da poco, l’ultima storia da raccontare.