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Stiamo parlando di un’artista (Miles Davis) che ha attraversato da protagonista tutta la storia del jazz “moderno”. Se, pensando in generale alla musica jazz, vi viene per primo in mente il nome di Davis, il motivo è tutto qua, nella grande poliedricità e nelle grandi intuizioni di questo trombettista di colore. Come giudicare altrimenti un artista che, cresciuto con Charlie Parker, è stato fra i protagonisti della svolta “cool”, ha portato avanti un “hard bop” fra i più efficaci e rigorosi e, infine, ha praticamente consumato il matrimonio con il rock, fondando la cosiddetta “fusion”. Forse solo il movimento “free” non ha avuto Davis fra i suoi protagonisti. Nei ’60 Miles aveva riunito un quintetto destinato a fare storia: in esso si distinguevano il giovane pianista Herbie Hancock e il sassofonista Wayne Shorter. Dei dischi prodotti da questa formazione (cinque o sei, se la memoria non mi inganna) “Miles Smiles” è forse il mio preferito. Lo consiglio a tutti coloro che vogliano ascoltare un buon jazz “a regola d’arte”, pulito e scintillante. Non c’è la grande atmosfera di un “Kind of Blue”, bensì un suono diverso, più “scoppiettante” se vogliamo. Da un punto di vista compositivo Davis lasciò ampi spazi agli altri quattro componenti (in questo disco soprattutto a Shorter), mantenendo però sempre un saldo controllo delle operazioni. Va anche detto che è con questo quintetto che Davis, di lì a poco, traghetterà il suo sound verso lidi “elettrici” (nello specifico Hancock sarà il primo, affiancando una tastiera elettrica al classico piano). In “Miles Smiles” il suono è comunque ancora strettamente acustico e le composizioni impostate sulla più classica “linearità jazzistica”. Solo nella simpatica “Freedom jazz dance” possiamo apprezzare un ritmo curiosamente “funky”.