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Come se del mondo fosse rimasto solo il ricordo, come se una nuova dimensione l’avesse invaso con realtà virtuali, distorsioni temporali, flash accecanti, battiti assordanti. E se dalla confusione una sagoma si facesse sempre più netta a dare la propria visione di questa realtà, più vicino al quotidiano di quanto si possa credere? Questa sagoma è meglio identificata in cinque ragazzi che vanno sotto il nome di Monovox: Andre (voce e parole), Cristiano (chitarra), Mastro (tastiere), Ivee (basso) e Mattia (batteria). Il gruppo, all’esordio ufficiale nel caos del mercato discografico, si avvale della produzione di Boosta, già addetto a tastiere e programmazioni nei torinesi Subsonica, e dell’accompagnamento in buona parte dei testi del poeta Luca Ragagnin. Il singolo di debutto è “Vibrafoniche”, e presenta da subito un concetto che percorre l’intero album: un nuovo modo di percepire l’amore, o i sentimenti in generale, avvolto in un connubio tra sentimento e tecnologia. Si parla infatti di emozioni che scorrono su onde stereo, onde elettriche che dall’etere raggiungono direttamente il cuore, conquistandolo. Sulla stessa scia scorrono anche la traccia di apertura, “La spia”, quella di chiusura, “Supercoma” e “Luna cool”, dove il computer di bordo di un’astronave, preso dalla gelosia, impedisce al viaggiatore spaziale di fare ritorno dalla propria amata, prendendo voce nei campionamenti e nelle distorsioni in sottofondo. Ma i sentimenti, la vita e la musica si fondono con l’ossessione di un mondo cibernetico, anzi, della vita concepita come gigantesco videogame, in “Stazioni digitali”, portando alla luce quella che è definita una “sindrome seriale occulta”. Ma c’è anche una favola, quella che “Peter Pop” vive nelle sue fantasie, immagini virtuali che contaminano anche la realtà; e se l’immaginazione è l’ingrediente fondamentale anche per “Prati viola”, questa volta l’atmosfera è molto meno giocosa, e la musica malinconica che sembra farsi strada tra la ruggine delle grandi città accompagna le parole verso un rifugio che sa di unica speranza: la fantasia. Ma quanto il grigiore del quotidiano può imprigionarci? “Interferenze” si presenta come un’introspettiva e cupa riflessione sul freddo mondo moderno, su quanto la nascita e lo sfruttamento dei nuovi mezzi di comunicazione siano riusciti addirittura a cambiare i rapporti tra esseri umani. Ed anche “Dentro il tempo”, all’apparenza tanto futurista nel suo sogno di abbattere le barriere temporali, rivela al suo interno un nocciolo di amara riflessione. Nota particolare per una cover presente all’interno dell’album: “Impressioni di settembre” della PFM. E qui un vecchio vinile sembra prendere vita in una nuova dimensione, rinascere ancora più forte dopo essere stato rispolverato da chissà quanta polvere. Ma qui di polvere e di vecchio c’è ben poco. C’è tanta energia che arriva dritta alle orecchie, al cuore ed alle gambe nella scarica elettrica della chitarra, senza troppi giri di parole, senza troppi virtuosismi, compensati comunque da una grande attenzione per gli arrangiamenti. Energia che non perde potenza nello scatenarsi della batteria, nel groove del basso e negli accompagnamenti di tastiera, ma anche originalità nei campionamenti. Senza dimenticare la voce, che emerge dalla confusione per portare la propria sincera esperienza, i propri sogni a chiunque riesca ad ascoltare. E come recita l’accattivante ghost track, a rivelare la pura essenza dell’album stesso sotto la scorza di una lingua straniera: “Bianco shock di note conseguenti. Musica senza strumenti. Bianco shock senza più interferenze”.